domenica 9 settembre 2012

morire è un lavoro.

Quello che sconvolge di un turno di guardia in un reparto oncologico o ematologico, in particolare per chi è giovane e quindi non evade e non si allontana, ma rimane sul campo, presente, fra le stanze, a guardare dentro una bocca, a sedare crisi di ansia, a rispondere a domande imprudenti, a toccare corpi in ogni stato e con ogni sentimento, dalla pietà alla miseria al disagio, ad osservare e ricevere, o più spesso a subire, quello che sconvolge è il tempo necessario a dimenticare, a ritornare umani, a rientrare in un sistema, anche elementare, di contatti e relazioni.
È un'esperienza che effettivamente non si supera e non si impara, ma si può soltanto dimenticare; se così non fosse, non saprei spiegare o definire con altre parole il gesto e lo slancio con cui si reitera e si ricomincia, dopo un giorno o due o tre, la stessa vita nello stesso posto di fronte alle stesse immagini di uomini in via di disfacimento, non saprei spiegarlo con parole che non siano abbandono, rinuncia, deriva, frammentazione, disgregazione, martirio, suicidio, intendo.

E la misura della profondità con cui ti scava dentro e ti svuota e ti sfianca, la misura del male che ti provoca, la dimensione del danno che ti lascia, di quanto ti rovina, è data unicamente dalla forza con cui, appena lasciato quel posto, hai bisogno di vita, di un'emozione che ti riscatti e che lo faccia senza riguardi, e che, anzi, dimostri di conoscere e di saper parlare lo stesso linguaggio di violenza di quella forza animale che ne ha creato il bisogno.
Contrastare la coscienza dell'irrimediabile con qualcosa di clamorosamente vivo, fare l'amore fino a stare male, letteralmente, fino a provare un dolore presente e materiale, rompere oggetti, lasciare segni, esternare, trovare qualcosa che superi in intensità il senso di morte, dire la verità. Su ogni cosa, dire la verità. Perché esistono certi gesti di un amore assolutamente puro e senza conforto, il sentimento che guida la mano che accarezza il corpo dentro cui c'è la persona che ami, anche se ormai deforme, assente, consumata, immagini con cui altrimenti non entreresti mai in contatto e di fronte alle quali rimani inerme, paralizzato nella consapevolezza dei tuoi errori, immagini che, quando hai in sorte la disgrazia di doverle subire, di assistere mentre ti attraversano, ti dimostrano nella maniera più cruda e traumatica l'incredibile idiozia di una rinuncia, la sconfinata stupidità dei tentativi non fatti, dei gesti trattenuti, delle emozioni controllate e negate, e, su tutte, la misera ignoranza che mi ha impedito di parlare e di desiderare.

sabato 4 agosto 2012

but you catch yourself trying.

Domenica sarà un anno esatto che sei mancato e da allora è stato tutto, semplicemente, uno sfacelo. Non ricordo molto dei primi mesi, dello scorso autunno, di come mi sentissi e di che cosa avessi deciso di servirmi per occuparmi della tua perdita, non dico per superarla, ma anche solo per leggerla, capirla e poi per dimenticarla, non ricordo nulla se non il primo giorno in cui sono tornata al lavoro, un sabato o una domenica, il clima di diffusa e concordata apatia, lo sconforto, la disillusione, l'ondata di cinismo che ci aveva travolti tutti, radicale, limpida, quasi banale, adolescenziale, arrabbiata, piena di recriminazioni, ricordo solo l'attenzione maniacale che tutti, indistintamente, mettevamo nel viaggiare sempre ai margini di un dolore davanti al quale eravamo niente, annullati da un terrore primitivo, animale. Chi era con me in quel periodo mi ha assicurato che si è trattato dell'inizio di un piccolo, privato, disastro individuale, diventato insanabile dato che ha messo radici in me che sono un terreno nevrotico, già dissestato, frutto di un'educazione sentimentale sbagliata, pericolosa, immorale. Chi era con me in quel periodo, infatti, ha deciso di non esserlo più e io non mi sento di biasimarlo.
Le volte in cui durante quest'ultimo anno ho visto i tuoi genitori ho puntualmente sperato che si fermassero in tempo un attimo prima di dirmi cosa pensassi o raccontassi o ricordassi di me. A loro piace e forse serve ricordarti facendoti rivivere attraverso questi racconti, e io ho riso poche volte con una sincerità così piena come quando stavo ad ascoltarli seduta nella cucina di casa tua, ma io non voglio conoscere le tue storie che parlano di me, perché ho bisogno di continuare a pensare che tu mi abbia visto solo per quello che sembro, una persona pulita, con una quantità di amore, dentro, così grande da non saperla gestire, e non come la persona che sono, malata di cinismo e incapace di vivere, e ho forse ancora più bisogno di sapere che, anche così, sono riuscita a toglierti la paura.

venerdì 3 agosto 2012

I still beg. please, help me. I was a child. I am a child.

Le persone, quando muoiono, si muovono e si comportano come bambole rotte. Anche quando ci impiegano molte ore a morire, si può individuare distintamente il momento in cui smettono di essere pienamente vive, solo agitate o addormentate, solo sofferenti o in agonia, e iniziano a morire. Si tratta di un vero e proprio processo, un periodo di tempo, un'ultima forma in divenire, solo svuotata di ogni significato, non c'è più una persona, una mente, un pensiero, una vita, un dolore, ma solo un corpo che è rimasto incastrato in un movimento inutile, ripetitivo, come un meccanismo inceppato, un oggetto irrimediabilmente rovinato che si ferma per inerzia, piano, per esaurimento, svuotamento, per sfinimento.
Prima di iniziare a lavorare mi era capitato di vedere solo persone già morte, ferme, finite, composte, vestite, concluse, già ricoperte di altri significati, trasformate in simboli di perdita, assenza, lontananza, abbandono, miseria, frustrazione, silenzio, limite; allora pensavo che il passaggio mancante fosse un semplice cessare di ogni movimento, qualcosa di poco scenografico, quasi dimesso, un respiro che non si rinnova, qualcosa che c'è e poi smette di esserci, un attimo netto, un acme seguito dal sollievo di un riposo, la vita che lascia il posto, veloce, al niente.
Negli ultimi tre anni, invece, ho visto morire forse cinquanta o cento persone, assistendole o semplicemente essendo presente mentre morivano, perché, anche se si tratta del momento in cui la presenza di un medico è più profondamente inutile, quasi grottesca nella sua completa futilità e nel suo essere fuori luogo in quanto manifesto di un fallimento, è paradossalmente la circostanza in cui si viene chiamati ad esserci e a rimanere, a fare qualcosa, febbrilmente, in uno slancio di speranza che ha delle note di squallore e insieme di infinita tenerezza.
La verità è che si smette di respirare molto prima di quando si smetta effettivamente di muoversi tentando di farlo, ma è ormai una sorta di singhiozzo, forse nemmeno un tentativo, solo un accenno, uguale, periodico, leggero, un ricordo; e non ci sono più espressioni, ma non perché i segni del dolore lascino il posto ad una forma più serena o distesa, alla tensione, alla paura o al terrore della fine, ma solo perché quello che rimane è una forma vergognosamente neutra, senza significato perché già senza vita, pura materia, non interpretabile.

domenica 29 luglio 2012

I can't grow without a weapon / or a dream.

Sono state le suore ad insegnarmi a scrivere, ma senza spiegarmi come si tenesse in mano la penna o, almeno inizialmente, a cosa mi servisse imparare quei segni. Disegnavano dei simboli, netti, puliti, armonici, in alto su dei fogli bianchi, e noi dovevamo limitarci a riprodurli, e anche se nessuno che io ricordi mi ha mai detto esplicitamente quanto fosse importante che io li disegnassi belli a mia volta, so di aver capito subito che il punto era esattamente quello, che non importava la mano che avremmo deciso di usare, la posizione delle dita, la schiena, l'atteggiamento del corpo, nessuno sarebbe venuto a correggerci, non importava il tempo che ci si doveva impiegare, ma solo l'ordine complessivo della pagina, la regolarità dei segni, il rispetto degli spazi e delle proporzioni, l'armonia del disegno complessivo. Mi hanno insegnato a scrivere come se fosse un modo per decorare i fogli. Mi ricordo il moto di ribellione e la delusione che ho provato il giorno in cui, dopo che avevamo ormai imparato, ci hanno spiegato che quei simboli erano lettere, e che con le lettere si componevano le parole; mi sembrava uno spreco tutta quell'attenzione per rendere bella una merce di scambio, il contenitore di un significato.
E poi per le parole c'erano già i suoni, quello sforzo per rappresentarle era solo un'inutile ripetizione, un rallentamento.
Ho iniziato subito a scrivere anche sulla pelle dato che nessuno aveva nominato le regole o le presunte applicazioni ortodosse e accettabili di quella che almeno a me sembrava solo una nuova forma di espressione, solo un modo, e una raccomandazione per stare attenti alle forme e ai segni. Con la mano destra riuscivo a scrivere su ogni parte del corpo tranne che sulla mano stessa e sul polso, ed è lì che quando ho avuto l'età per farlo ho scelto di fare un tatuaggio.
Ancora adesso pago il prezzo di quell'attenzione smisurata per il singolo segno, slegato non solo dalla visione d'insieme della parola ma anche dal resto della lettera di cui fa parte, tanto che mi capita ogni giorno, più volte al giorno, di rimanere a guardare quello che scrivo, mentre lo scrivo, anche senza avere un pensiero preciso, come se controllassi la qualità di una linea.
Anche il mio modo di tenere in mano la penna nasce dal primo periodo in cui ho imparato ad usarla, perché se quello che contava era davvero solo il risultato finale, allora potevo e, anzi, dovevo trovare il modo e la posizione che mi garantisse di controllarla al meglio, esattamente come un qualunque strumento.
E, per essere sicura più che potevo di lasciare sul foglio esattamente il segno che avrei dovuto o quello che avevo in mente, ho imparato istintivamente a tenere stretta la penna fra le dita, con forza, tanto che avere male alla mano destra è diventata un'abitudine, quasi la naturale prosecuzione del tempo passato scrivendo e la sensazione naturalmente associata all'idea di scrivere, prima di scegliere di farlo.
Ma, che io ricordi, questo non ha mai avuto una connotazione spiacevole, come di qualcosa da contrastare o risolvere, ma l'ho accettato come una sorta di male necessario, tanto che adesso che, per lavorare, scrivo molto ogni giorno, dopo un turno di guardia mi lamento spesso per il fatto di essere stanca, di avere male alla schiena o alle gambe, ma mai alle mani, e non perché non lo senta o non ci faccia caso, ma perché me lo aspetto come il fatto di avere fame o sonno, e mi stupirei del contrario, perché è vero che non voglio o, meglio, non posso, per indole, cedere e arrendermi al fatto di provare, come tutti, un dolore o un bisogno così atteso, prevedibile e umano, come appunto la fame o il bisogno di dormire, ma è altrettanto vero che li accetto come limiti e calcoli imperfetti, che vorrei soltanto non riguardassero anche me.

Quasi quattro anni fa ormai ho preso, da sola, un aereo che mi ha portato in America dove mi sarei fermata per qualche mese, senza calcolare in modo particolarmente attento i rischi di una scelta che era allo stesso modo tanto normale e possibile per una ragazza della mia età, quanto rivoluzionaria tenuto conto che la ragazza della mia età ero io. Per tutto il tempo del volo ho scritto perché non avrei saputo in che altro modo vivere quello che mi stava succedendo; era allo stesso tempo il mio modo di parlare, di ragionare, di sedare l'angoscia, di riempire il tempo, la distrazione per non guardare l'oceano sotto di me, era un gesto che potevo ripetere trattenendomi dal fare altro, tutt'altro, avrei potuto prendere a pugni lo schermo che avevo davanti, strappare la coperta che mi avevano dato, camminare per i corridoi fra i sedili, fare qualcosa che facesse rumore, e invece, per fortuna, potevo scrivere.
Non ricordo praticamente nulla di quello che ho scritto né di quello con cui, poi, ho continuato a riempire quel quaderno, che è forse l'ultima volta in cui ho scritto, seriamente, a mano. Rientrata in italia, l'ho regalato.

Quando cammino le gambe si toccano fra loro poco sopra il ginocchio, forse perché non ci ho fatto caso come avrei dovuto al momento in cui ho imparato a camminare e ora mi è rimasto questo difetto come un segno e un avvertimento degli effetti che può avere un attimo di noncuranza.

Sono in treno e non sono ancora le sette del mattino. Fuori la pianura è come dovrebbe essere, per una volta: semplicemente verde. C'è una ragazza qui accanto a me che è salita alla mia stessa stazione ma che non conosco perché non faccio parte del paese da cui sono partita più che della città verso cui sto andando.
Appena salita sul treno, con la stessa velocità e forse seguendo uno stesso automatismo, io ho preso il computer e lei ha aperto un quaderno, per mettersi a scrivere.

Mi è capitato di essere in macchina e di avere voglia di tirare il freno a mano, in un rettilineo a caso fra quelli che attraversano questa pianura senza forma e senza movimento. Non credo di voler morire, ma so di essere travolta e dominata, in alcuni casi, dal bisogno di fare qualcosa, compiere un gesto, cambiare la direzione di quello che sta succedendo, interrompere, intervenire, disturbare, anche a costo di rovinare.

venerdì 27 luglio 2012

what's the point of waiting for life to come.

Negli ultimi mesi mi sono accorta di non ricordare più per immagini, ma solo per particolari accidentali. Non mi capita di pensare alla mia famiglia senza un motivo contingente, non mi torna in mente l'immagine di mia madre o di mio padre, non ricordo spontaneamente la forma della mia stanza. Mi capitano, invece, delle associazioni violente e involontarie, portate dall'odore di qualcosa di marcio, dal gesto di svuotare i piatti dagli avanzi del pranzo, dal semplice vedere un viso che invecchia. Mia madre ormai è una voce dentro un telefono, mio padre nemmeno più quello. Della mia casa mi sono rimasti solo ricordi recenti, arrivi e partenze, valigie dietro la porta, l'ottundimento di chi si allontana o rientra nella sua vita quotidiana passando attraverso un aeroporto, l'odore dei vestiti vecchi che ho lasciato nei cassetti, il senso di abbandono e la nostalgia dei quaderni con i miei disegni accatastati sulla scrivania, il mio letto con le coperte colorate ma senza lenzuola, perché tanto non ci dorme più nessuno. Della mia casa sono rimaste solo le immagini di quando già non era più mia e iniziavo a tornarci da ospite, guardando gli oggetti come se appartenessero ad una persona che era stata lì ed era già stata me, prima di me.

Ieri sera sono tornata a casa quando già lei era andata via per fare la notte. Ero sul letto quando è suonato il telefono. Ho riconosciuto il numero, una sua amica che abita nel palazzo qui accanto e che lavora insieme a lei; guardo il telefono e sono tentata di non rispondere, non voglio parlare e non voglio intrattenere, non voglio proprio sentire il suono della mia voce che fa finta di niente, voglio solo un'altra canzone giusta subito dopo questa. E invece rispondo come se fosse la cosa più naturale del mondo e come se quegli ultimi secondi fossero serviti solo per raccogliere le forze e concentrarmi. Pronto, ambra? No. emanuela. Ciao, emanuela. C'è ambra?. No. Lavora. Ah, fa la notte? Già. Ah, niente. Avevi bisogno di lei? Sì. Volevo farle una domanda. Capito. E tu? Io? Sì, come stai? Sono tornata a casa ora. Ambra la trovi domani. Sì, ok. Va bene? Certo. Hai cenato? Io? Sì, tu. Non ci ho ancora pensato. Emanuela, posso chiedere a te, magari lo sai anche tu. Sì. Sai se le nostre ferie sono cumulative di anno in anno? Non so proprio, non me lo sono mai chiesta. No, perché io ho bisogno di tornare a casa, devo farlo assolutamente, non riesco più, è diventato troppo, voglio stare via almeno tre settimane, ma se lo faccio e poi magari torno a casa a natale mi ritrovo a non avere più ferie e come faccio ad arrivare fino a maggio, l'esame, tutti quei mesi, la prossima estate, no, non riesco. non so se capisci cosa intendo. E si mette a piangere.
Poi cambia discorso, mi parla del suo pranzo, di turni, del caldo, mi dice che ha ripulito e rimesso in ordine la sua stanza, che domani ha solo due pazienti da vedere, che a novembre va via dall'Italia per un matrimonio, che anche quelle sono ferie, e niente, ritorna sullo stesso argomento, dice che ha bisogno di sapere, perché poi magari non vuole più tornare a casa, ma non può accettare di sapere già di non poterlo fare, tutto ma non questo limite, mi chiede di me, quando torno a casa, dice che posso capirla, avendo la famiglia lontana, poi mi saluta, mi dice che le spiace avermi disturbato. E io mi alzo e faccio un giro inutile in casa, toccando tutte le stanze per essere sicura di essere sola.

A saperli leggere, in quella mia stanza c'erano già tutti i segni di quello che sarei diventata, non tanto dell'intensità ma del modo in cui avrei sofferto, il carattere, i gesti, la compostezza, forse anche l'autonomia e l'indipendenza anche nel dolore, la voglia di controllarlo, conoscerlo, tentare di dominarlo. E ora che quegli oggetti sono tutti ammucchiati e compressi in una stanza, rientrarci è come aprire un canale della memoria che guarda dentro un sogno e ne parla lo stesso linguaggio, non ci sono vincoli temporali e non si deve soddisfare un criterio di coerenza o di unità: il primo gioco che mi hanno messo in culla, i libri che ho letto al liceo, un pianoforte, il certificato di iscrizione all'ordine dei medici, le parole con cui avevo ricoperto le pareti intorno al mio letto che qualcuno ha staccato dopo che sono andata via, minuscole bambole tailandesi che sulla carta avrebbero dovuto aiutarmi a dormire, se lasciate sotto il cuscino, coperte fatte a mano da mia madre, biglietti d'aereo, giornali, una scatola piena di colori di ogni tipo, alcuni ormai secchi, inutilizzabili, tutto ricco e pulito, perfettamente in ordine, ma non come se si fosse in attesa di un ritorno, ma come uno sforzo per tenermi insieme, per non disgregarmi, come individuo e come ricordo. Come se mia madre avesse paura di perdermi in maniera più profonda o più definitiva dimenticando qualcuno dei miei slanci o delle mie strane abitudini, come se la sua capacità di essere madre e di riconoscersi ancora come tale dipendesse dal mio esistere ancora, lì nella camera accanto, ordinatamente scomposta in tutti i miei tratti fondamentali.

martedì 5 giugno 2012

il cinque agosto.

Oggi mi si è avvicinata Federica e io, prima ancora di farla parlare, scherzando, le ho detto che no, non avevo tempo per aiutarla. Aveva un paio di fascicoli in mano e tutta l'aria di avere bisogno di me per conoscere dei dati. Io stavo pensando solo al fatto che avevo sentito pronunciare troppe parole e ad un volume troppo alto durante la mattina per mantenere anche solo una parvenza di calma e padronanza di me e della situazione. Pensavo che di lì a qualche minuto avrei dovuto ripetere con uno dei miei superiori la lezione di lunedì, senza aver avuto nelle sere precedenti il tempo, la concentrazione, la voglia e anche soltanto la speranza di approfondire un argomento che si conclude, come la maggior parte dei nostri capitoli, con una serie di curve di sopravvivenza che si chiudono dopo un tempo che si misura in mesi. Mi si è avvicinata Federica e mi dice, sorridendo, Nicola. Il tuo nome così, nel bel mezzo di un grande niente, senza un'inflessione o una sfumatura nel tono e nella voce che potesse lasciarmi intuire di cosa mai potesse trattarsi, perché tu, dopo così tanti mesi, dato che non avevi fatto parte di nessuno studio, non avevi fatto il trapianto o preso un farmaco sperimentale, non avevi fatto nulla di speciale dal punto di vista medico, eri solo il racconto travagliato di una famiglia distrutta, due anni di malattia per una storia già scritta, e mi ha fatto male pensare, senza volerlo, oggi, all'indicibile banalità delle cose che ti sono capitate e che ti hanno fatto morire, una storia identica ad altre che di speciale aveva soltanto i tuoi modi e le cose che ci hai lasciato dentro, senza nessuna violenza, senza dramma, senza eccessi, senza piangere, cose che ancora oggi siamo qui a contare e scoprire.
Guardo Federica con un'espressione che non so nemmeno immaginare, ero stupita, infastidita per il fatto che qualcuno ti stesse nominando, risvegliandomi e riportandomi indietro di un anno, per cosa poi, una questione di statistica, per una raccolta di informazioni, un database, un censimento, ma nulla sarebbe stato sufficiente a giustificare quella intromissione, avevo fretta di sapere cosa volesse e di chiudere la conversazione, ero arrabbiata perché pensavo che qualsiasi cosa avesse voluto conoscere, avrebbe potuto cercarla da sola o chiederla ad altri, chiunque altro. Non c'erano dettagli della tua storia che potessi conoscere soltanto io, se togli i ricordi, i racconti e i sentimenti, che non sarebbero serviti a riempire una qualsiasi casella in un documento di poco valore da mettere in archivio.
La guardo e aspetto che mi dica qualcosa, e lei mi dice soltanto quando.
L'ha detto come se fosse una domanda lecita, con l'atteggiamento, non solo del viso ma di tutto il corpo, di chi sta cercando di dirmi che capisce la delicatezza dell'argomento, ma che, come posso vedere, si limita appunto a chiedermi solo una cosa di cui si può parlare, un dettaglio che si può dire.
Non so se, perdendomi come al solito in mille giri di parole, sono riuscita a farti capire, ma oggi una ragazza che tu non hai mai visto, bella, alta, con gli occhi verdi, una data manager, se sai o hai mai saputo cosa possa significare, è venuta da me a chiedermi il giorno esatto in cui sei morto.
Io le ho detto, ma non chiedermi che voce avessi, venerdì, il primo venerdì di agosto, era venerdì, guarda, venerdì. Devo aver detto quella parola cinque o sei volte in pochi secondi, e mi sembrava sufficiente. Poteva guardare anche da sola che giorno fosse il primo venerdì del mese di agosto. Poi le ho detto il sei, non mi ricordo esattamente, il cinque o il sei, il primo venerdì di agosto, e l'ho detto solo perché mi rimaneva immobile, in piedi, davanti, mentre io ero seduta accanto ad uno dei lettini dell'ambulatorio, che avevo ricoperto di fogli, per sedare la mia ansia di controllo e di ordine, tutti esami da riguardare, numeri da ricontrollare, storie da scrivere.
Volevo che se ne andasse, devo averglielo anche chiesto, continuando a dire il cinque o il sei, non so, guarda sull'agenda, il primo venerdì di agosto.
Ma lei non si muoveva e mi guardava come se fosse pentita di avermi fatto quella domanda, per gli effetti che aveva avuto su di me e che lei si trovava ad avere, di colpo, sotto gli occhi, ma al tempo stesso come se fosse in attesa di ottenere quell'informazione, come se completare il dialogo potesse rendere tutto quel dolore e quella mia reazione più utili.
Allora mi sono alzata e sono andata al computer, ho cercato il tuo nome nel programma di consultazione degli esami di laboratorio per risalire all'ultimo giorno, e le ho risposto il cinque.

giovedì 5 aprile 2012

vi è nel popolo un dolore muto e rassegnato, che si ritrae in sé e tace.

Mia nonna non parlava molto, prima ancora che per colpa della sua malattia, che pian piano le aveva tolto i movimenti, l'autonomia, la forza e, in ultimo, anche la parola, lei lo faceva perché aveva una consapevolezza dolorosa di certi suoi presunti limiti espressivi e perché temeva l'umiliazione più di ogni altro possibile castigo accidentale. Lo stesso tipo di silenzio affettivo spiega il perché fosse così restia a manifestare il suo stato d'animo con un gesto o con una decisione. La ricordo immobile, altissima, con un corpo maschile, ingombrante, le dita delle mani intrecciate, l'espressione tesa, gli occhi chiari e lo sguardo fisso di una straniera o di un animale che ha paura; sembrava costantemente alle prese con qualcosa troppo più grande di lei, guardava il mondo come se vivere e dover parlare per vivere fossero uno sproposito e al tempo stesso una vergogna, un'indecenza. Sembrava non avere nessun grado di familiarità con il corpo, come se nella sua educazione ci fosse una mancanza strutturale, una completa ignoranza, era un miracolo o forse una contingenza imprevedibile il fatto che fosse riuscita ad essere una madre.
Mi sono accorta anni dopo averla persa che con il suo modo silenzioso, metodico e privato di esistere era riuscita a insegnarmi ad essere discreta e delicata anche nel momento della rinuncia. La notte prima della mattina in cui è mancata ha calcolato la durata esatta del suo matrimonio e, quando mio nonno si è svegliato, lei gliel'ha semplicemente comunicato, siamo stati insieme cinquantaquattro anni, tre mesi e sei giorni.

martedì 3 aprile 2012

anche ieri è un grande vuoto.

Il 23 dicembre del 1998 avevo tredici anni e ho ricevuto una telefonata con cui mia madre, che era al lavoro, mi informava che finalmente, dopo dieci anni e più di una malattia neurologica progressiva e imprecisata, mia nonna paterna era riuscita a morire. Lei mi ha detto solo vedi che è morta tua nonna, senza perifrasi, senza una nota di dispiacere nella voce, senza riguardo per il fatto che fosse il mio primo incontro con una perdita definitiva, come se fosse importante solo che io registrassi l'informazione. Ha detto proprio vedi come se volesse dirmi tienine conto, regolati di conseguenza, cerca di comportarti a modo, ha detto solo vedi ma intendeva vedi di non sorridere e, anzi, forse voleva dirmi ricordati di sembrare disperata. Credo, poi, che abbia detto tua nonna per sottolineare che dovevo sentirmi coinvolta, che si trattava di una morte che mi riguardava, perché già allora doveva essere evidente la distanza fra il mio aspetto disteso, pulito, allegro, sano e sorridente, tipico di una ragazzina ben educata e di buona famiglia, e il mio distacco patologico, la mia indole sfiduciata e accondiscendente, la mia pericolosa, spontanea, tendenza all'isolamento e al silenzio. Terminata la telefonata ho finito di sistemare la coperta pesante sul letto dei miei genitori perché era iniziato l'inverno. Non ho pianto fino al giorno successivo e non è stato per dolore; è successo perché, quando sono entrata nella casa dei miei nonni, mi sono trovata materialmente spinta verso la cucina, credo perché tutti avevano paura che mi venisse in mente di attraversare il corridoio ed entrare in camera da letto. Ho pianto, credo, per il fastidio di essere toccata da tutte quelle mani e forse perché siamo arrivati in casa nel momento esatto in cui le stavano mettendo il vestito buono, quello nuovo, e sentivo che le parlavano e le chiedevano di avere pazienza. Perché fra un attimo sarebbe finito e l'avrebbero lasciata riposare.

domenica 1 aprile 2012

thomas bernhard, ja.

Noi cerchiamo senza sosta di scoprire dei retroscena e non facciamo un solo passo in avanti, soltanto complichiamo e ingarbugliamo ancor più ciò che è già complicato e ingarbugliato. Cerchiamo un colpevole del nostro destino, che quasi sempre, se siamo onesti, possiamo definire unicamente come sventura. Ci rompiamo la testa su cosa avremmo potuto fare diversamente o meglio e su cosa possibilmente non avremmo dovuto fare, perché ci siamo condannati, ma non porta a niente. La catastrofe era inevitabile, diciamo poi, e ci concediamo un periodo, anche se breve, di quiete. Poi ricominciamo da capo a porci domande e ci rodiamo e rodiamo fino a che siamo diventati di nuovo pazzi. In ogni momento siamo alla ricerca di uno o più colpevoli, cosicché almeno per quel momento tutto ci diventa sopportabile, e naturalmente, se siamo onesti, torniamo sempre a noi stessi. Ci siamo rassegnati al fatto che dobbiamo esistere, anche se per la maggior parte del tempo contro la nostra volontà, perché non ci è rimasto nient'altro, e tiriamo avanti solo perché sempre e sempre ancora, ogni giorno e ogni momento, ci rassegnamo da capo a questa realtà. E il punto d'arrivo, se siamo onesti, ci è noto da tutta la vita, è la morte, solo che per la maggior parte del tempo ci guardiamo bene dall'ammetterlo. E poiché abbiamo la certezza di non fare altro che avvicinarci alla morte e poiché sappiamo ciò che questo significa, cerchiamo di metterci a disposizione tutti i possibili mezzi per evitare questa consapevolezza e così, se guardiamo bene, in questo mondo non vediamo altro che gente occupata perennemente e per tutta la vita con questa diversione. Questo processo, che in ognuno è il processo fondamentale, debilita e accelera naturalmente tutto lo sviluppo verso la morte. […] Tutta questa gente, non importa chi sia, è dominata da questo processo volto a evitare la morte comunque imminente, avevo pensato. Tutto, in ogni uomo, è soltanto un evitare la morte. Solo se abbiamo a portata di mano un uomo con il quale alla fin fine possiamo parlare di tutto ce la facciamo, altrimenti no. dobbiamo andare da un Moritz e poterci sfogare.


[…]


Da me si era aspettata la salvezza, ma io l'avevo delusa. Anch'io ero perduto, come lei, una persona annientata, anche se con lei non l'avevo ammesso, lo sentiva, lo sapeva. Da una persona simile non poteva venire la salvezza. Al contrario una persona simile gettava uno ancor più profondamente in una disperazione senza via d'uscita.


[…]


Lei è perduto, come sono perduta io, disse. Lei può cercar scampo dove vuole. La sua scienza è una scienza assurda, come ogni scienza. si sente?

lunedì 26 marzo 2012

I hope for your life / you forget about mine.

Quando ero ancora molto piccola, nel personalissimo sistema di valori, colpe, ordini e gerarchie nato come regolamento interno della mia famiglia, la responsabilità per il mio aspetto era di mia madre che aveva il compito di darmi da mangiare e di controllare che tutto quello che mi riguardava cadesse splendidamente nella media attesa per tutti i bambini della mia età e con le mie potenzialità, con gli occhi chiari e tantissimo tempo a disposizione per imparare. In questo modo mio padre riusciva a controllarci entrambe con un unico gioco, avendo trasformato il compito già terribilmente complesso di essere genitore e, peggio, di essere madre, in una vera e propria prova di valore, in un esame di vita, una tortura quotidiana, e allo stesso tempo facendomi diventare oggetto e soggetto in quel sistema di significati e sentimenti, malato già allora, che era il loro rapporto di coppia.
Era già molto forte in me il bisogno di compiacere i desideri e le aspettative di mio padre, ed era ugualmente forte il senso di alleanza e lealtà verso mia madre, tanto che, se avessi saputo come fare e se questo mi avesse garantito la loro felicità come coppia e come famiglia, mi sarei impedita di crescere.
Mio padre osservava, esaminava e giudicava quasi ogni cosa riguardante il mio aspetto e la mia crescita, il colore dei vestiti, la lunghezza dei capelli, il modo di parlare, la calligrafia, quello che mangiavo e quanto pesavo, quello che dicevo e quello che mi piaceva fare. La maggior parte delle volte non si trattava di cose che rispecchiavano o traducevano la mia identità, che era ancora molto primitiva e forse solo accennata, ma anzi io ero solo un supporto per le proiezioni del carattere e del gusto di mia madre, e mio padre, che ne era ben consapevole, scommetto, si serviva di me per osservare, esaminare e giudicare lei, criticandola e mortificandola per il fatto di non essere elegante, aggraziata e femminile quanto lui avrebbe voluto, richiesto e meritato. Lui mi guardava e trovava un errore, a volte qualcosa di esteriore, modificabile, un accessorio, un colore, un'espressione troppo da bambina o troppo da adulta, una smorfia, un sorriso di troppo, altre volte qualcosa di sostanziale, la forma delle mani o della schiena, il semplice fatto che ero cresciuta e iniziavo a somigliare ad una ragazza, e non c'era rimedio, potevo solo aspettare che smettesse.
Ricordo che una volta mia madre si mise a piangere dopo avermi guardato, credo fosse un momento di sconforto o di estrema stanchezza, non ricordo se stavo facendo il bagno o mi stavo semplicemente cambiando, ma so che le è bastato vedermi senza il maglione per accorgersi che non ce l'aveva fatta, ero cresciuta lo stesso e lo avevo fatto male, non ero stata graduale come mi aveva pregato di fare, piuttosto mi ero svegliata un giorno già perfettamente con la forma di una donna. Evidentemente mi aveva dato da mangiare più del dovuto, ma era rimediabile, era questo che ho pensato e che le ho detto per consolarla e farla smettere di piangere, ma lei è uscita velocemente dal bagno, lasciandomi lì ad impiegare anni per capire che aveva ragione, non era per niente rimediabile.
Da questo episodio e dai mille altri che per mia fortuna non ricordo credo nasca il disagio nel sostenere uno sguardo, il fastidio di accorgermi e, quindi, di sapere che proprio in questo momento qualcuno mi sta guardando, la tensione nel non riuscire a chiedere di smetterla, di non insistere, il castigo che si porta dietro la buona educazione.

mercoledì 21 marzo 2012

it rained all night and then all day.

Mio padre mi ha voluto come è capace di volere solo chi non ha mai conosciuto pace, con rabbia, violenza, a tratti con cattiveria, con un amore crudo e troppo pieno di desiderio per essere gestito con equilibrio e dolcemente. Lui voleva più di ogni altra cosa che io nascessi e poi che fossi femmina e bella, solo che deve aver sopravvalutato le sue capacità di gestire l'emozione e forse anche più in generale la bellezza. Ha passato i primi anni quasi senza parlarmi, non perché cercasse di ignorarmi ma semplicemente perché ne era incapace, manifestando inconsapevolmente quel tipo esatto di incomunicabilità e distanza che lega fra loro le persone che dovrebbero amarsi per vincolo di parentela, per consuetudine sociale, per vicinanza, ma che non hanno avuto in sorte il talento di saper vivere i sentimenti con naturalezza e con umanità. Dopo un adeguato numero di anni di silenzio, in cui si è dedicato a studiarmi in quanto fonte di illusione, perdita e tradimento, ha provato a difendersi da tutti i pericoli che iniziavo ad incarnare cercando di rovinarmi, anche solo come forma ed immagine, tagliandomi i capelli fino a farmi sembrare un maschio, controllando che non prendessi troppo peso, rischiando di iniziare ad assumere forme più dolci, femminili, e poi comprandomi i vestiti adatti a nascondermi quando con il tempo è diventato inevitabile non avere più il corpo di una bambina.
Fra i vari aspetti della mia crescita i capelli in particolare erano diventati per mio padre un motivo concreto di angoscia e allo stesso tempo una fonte di frustrazione quotidiana, mi ricordo l'espressione con cui, ogni volta che si accorgeva che stavano ricrescendo, mi si avvicinava per convincermi a tagliarli, e mi ricordo il suo modo di muoversi e il tono agitato con cui mi parlava, quasi rimproverandomi, comportandosi come se non ci fosse tempo da perdere, come se ogni giorno in più trascorso con l'aspetto di una bambina fosse un rischio inaccettabile, un affronto, e se non cedevo alla sua richiesta di tagliarli lui mi minacciava, e se non cedevo nemmeno alla minaccia si agitava e si innervosiva come se stesse perdendo il controllo sul mio intero progetto di crescita o come se si trovasse davanti ad una mia ribellione deliberata contro la sua autorità, un modo per maltrattare già così presto un suo desiderio, qualcosa a cui doveva opporsi rapidamente, prima che diventasse troppo grande e autonoma, forse non più reversibile. È stato in quel momento che ho iniziato a volermi nascondere e ad avere vergogna, pur non avendo ancora l'età per riconoscere questo sentimento o per imparare a leggerne o a scriverne il nome, sapendo solo di averlo conosciuto come un castigo e di doverlo onorare come unico rimedio alla mia colpa di essere me.

domenica 11 marzo 2012

the more that you appear.

Per la prima parte della mia vita ho avuto un modo di desiderare che è stato illusorio per definizione, speravo nel manifesto dell'impossibile o in qualcosa che era puntualmente al di fuori del mio controllo, nel miracolo in cui per prima non sapevo come credere, e non lo facevo solo per ricevere quella delusione già annunciata che mi avrebbe dato una ragione e una giustificazione per continuare ad essere e a mostrarmi così cinica, ma anche e soprattutto perché, paradossalmente, non volevo sapere se fossi in grado o meno di desiderare in maniera sana o se avesse senso farlo, ed il modo più semplice per garantirsi di continuare a non saperlo era impegnarsi per lasciare che tutto rimanesse nel campo del dichiaratamente inverosimile, dove si era al sicuro tanto dal rischio di aver ragione quanto da quello di essere pericolosamente corretti e smentiti.
Speravo in parole ampie e tutto sommato vuote, come guarigione o separazione, speravo in una rivoluzione, in un epilogo rapido, plausibile, risolutivo, in un'assoluzione, un'amnistia, una liberazione, speravo che crescendo sarei diventata sempre meno simile a me, fino al giorno in cui non sarei più riuscita a ricordarmi e avrei potuto finalmente iniziare a vivere come se io non fossi mai successa. Continuavo a raccontarmi delle storie esattamente come facevano tutti gli altri, anche quelli che disprezzavo per la loro disarmante semplicità che li rendeva prevedibili e forse anche banali, con la sola differenza che io, pur avendole inventate e costruite con tanta cura e forse anche con amore, potevo solo fingere di credere alle mie storie.
Nella seconda parte della mia vita, invece, ho deciso di avere solo obiettivi concreti, per la maggior parte lavorativi, logistici, materiali, e li ho raggiungi senza nemmeno cercare di prendermi in giro chiamandoli desideri, considerandoli semplicemente come il completamento naturale di una storia che era stata già tutta scritta nelle premesse e che io mi stavo limitando a non rovinare.
Poi sono arrivati gli ultimi due anni che sono stati un'alternanza di traguardi altissimi e sconfitte assolute, fondamentali, senza una parvenza di pace o di stabilità fra un evento e il successivo, sono stati un esercizio continuo per imparare a mostrare di essere felice, anche quando era solo l'immagine di un'altra felicità, estranea, non mia, e a fallire sempre meglio, con più grazia e senza rabbia. Questi due anni sono stati più di ogni altra cosa la consacrazione della mia crescita, per cui ad oggi non ho più attenuanti. Di riflesso i miei desideri sono diventati minimali, elementari, quasi ridicoli, riuscire a tornare a casa prima dell'ora in cui viene chiuso anche l'ingresso principale dell'ospedale, avere almeno una sera in cui poter stare esclusivamente da sola, per non dover fingere, avere in tasca le monete già pronte per un caffè e le chiavi di una stanza in cui nascondermi, non solo in silenzio ma al buio anche in pieno giorno, cercando un sollievo momentaneo dall'eccesso di stimoli, umani e pieni di dolore, davanti ai quali sono ancora così inerme da farmi quasi rabbia, cercare di sbagliare meno possibile, non tralasciare o, peggio, dimenticare, essere ordinata, avere vestiti puliti e un viso nuovo ogni giorno, non trovare troppo freddo in strada e poi a casa.
Mi ricordo che esattamente un anno fa, mentre si stava avvicinando il mio compleanno, mi sono accorta per la prima volta di non essere più capace di formulare un desiderio che non fosse il semplice sopravvivere ad una giornata di vita e di lavoro scelta a caso, mentre ero perseguitata da pensieri che mi parlavano di bilanci, descrizioni e calcoli dettagliati di quello che avevo sprecato o perso. In quei giorni mi ricordo che cercavo solo di attraversare il tempo rimanendo indenne, arrivando fino a sera senza concedermi troppe possibilità per umiliarmi o provare vergogna e disprezzo per quello che ero diventata. Mi faceva compagnia il pensiero di essere assolutamente imbrigliata nel presente, incapace come ero tanto di guardare al futuro, con desiderio e volontà, quanto di rivivere il passato, ripensando a quello che era già stato senza una nostalgia intollerabile e senza dolore. Per mia fortuna in quel presente c'eri tu e questo bastava a darmi la tranquillità sufficiente per non raggiungere e non oltrepassare il confine fra il male di vivere comune, ripulito, rielaborato, musicale, quasi artistico, e la vera malattia di mente. Ho capito solo molto tempo dopo che era stato merito tuo se in quei mesi ero riuscita a fermarmi un passo prima di perdere la ragione, e che la tua mancanza era ed è uno dei motivi per cui, invece, adesso mi ci sto pericolosamente avvicinando. Venirti a svegliare ogni mattina era un piccolo miracolo quotidiano, in particolare per una persona come me che non aveva mai imparato o conosciuto i gesti, i tempi e i modi di una famiglia, e che non sapeva come muoversi di fronte ad una dolcezza così assoluta, senza parole e senza rimedio.
In questi stessi giorni di un anno fa mi sono ritrovata ad avere un desiderio, stupido, immediato, spontaneo e sincero, un desiderio vero, qualcosa in cui non puoi credere ma che vuoi anche contro ogni evidenza, qualcosa per cui ti sono rimaste solo le speranze, se ne sei capace. Per il mio ventiseiesimo compleanno ho espresso come unico desiderio quello di essere presente il giorno in cui li avresti compiuti tu, questo numero spropositato di anni, ma non è servito.

mercoledì 7 marzo 2012

and your delusions / are mine instead.

Soffro d'angoscia, c'è poco da girarci intorno con le parole. Sono vittima, nel senso letterale del termine, di rapidi e imprevedibili momenti di smarrimento misto a rabbia mista a paura mista a desiderio di vendetta e rivalsa misto a frenesia, è come se mi arrivasse contro e dentro una descrizione troppo esplicita e viva di una vita statica, immutabile, sprecata, per rimanere fisicamente ferma, ed in quel momento a guidarmi è una sorta di bisogno cieco di muovere, esprimere, manifestare, essere presente, far rumore, fare male. A far accendere uno di questi momenti può essere anche semplicemente il fatto di accorgermi, guardando attraverso la finestra, che è già diventato buio e un'altra giornata si è conclusa, e non importa quanto ho fatto e quanto sento di averla vissuta, perché è una reazione inconsulta, irragionevole, una scenata a priori, un moto elementare, primitivo, è rabbia non più controllata, è la paura più umana fra tutte, quella per il tempo che passa.
In quei momenti mi è già capitato di voler rompere degli oggetti e di riuscirci, senza provare alcun sentimento che non fosse il semplice appagamento del bisogno di rovinare qualcosa, senza partecipazione e senza dispiacere, mi è capitato di alzare la voce, infierire, reagire male e a volte con disprezzo anche a quei gesti d'amore che ho desiderato al punto da creare con la loro assenza un mio debito, colpevole e personale, quegli stessi gesti che non so smettere di invidiare a chi è più capace di me ad amare, mi è capitato di cercare uno specchio per guardarmi e concentrarmi, per raccogliere e provare tutta la compassione che merito per il fatto di non riuscire ad essere libera mai, nemmeno in quel momento di verità, cruda e immediata, per quell'espressione composta e contenuta che ho anche nell'istante di massima ribellione interiore, quando la paura di aver sbagliato modo, tempo, direzione e volontà supera di gran lunga ogni possibile talento, la mia presunta profondità di pensiero e la più elegante fra le sue espressioni.

sabato 3 marzo 2012

right as rain.

Dopo i primi due anni di lavoro in reparto, il giorno in cui è arrivato il momento di smettere, di cambiare, mi sono ritrovata in mente solo due pensieri, silenziosi, discreti, ordinati, quasi umili. Il primo era scontato, non mi sentivo all'altezza del ruolo che avrei dovuto ricoprire, e ora che sono passati due mesi posso confermare che non lo ero, ma per motivazioni molto distanti da quelle che credevo, e non è la prima volta in cui la vita, dopo un adeguato periodo di tempo, decide di accontentarmi dandomi ragione anche nelle mie previsioni più pretenziose, a tratti ingenuamente disfattiste, scegliendo di passare attraverso strade, persone, risvolti, associazioni, scoperte che non avrei di certo toccato e scomodato spontaneamente, tanto è banale la rappresentazione che ho della mia mediocrità e del suo fondamento. Il secondo era che ti avrei dimenticato come ho fatto con ogni persona che, per motivi ogni volta diversi ma solo formalmente distanti, ho dovuto accettare di non poter più avere, ritrovandomi a dover smettere di desiderare. So di avere una memoria che tende spontaneamente a raggiungere una posizione di equilibrio in cui è naturalmente scarna, priva, libera, so che, se non sto attenta e non mi ripeto le storie che voglio ricordare, lei mantiene solo le linee fondamentali di ogni evento, rendendo tutto il resto irrecuperabile, non più esistito, lasciandomi a volte solo il nome di una persona o un'immagine neutra che diventa via via meno aderente alla realtà ogni volta che tento di ridisegnarci intorno tutto quello che mi manca, altre volte ancora solo la coscienza di aver conosciuto e di aver vissuto, come la struttura esterna di un ricordo senza più contenuto. Proprio perché mi conosco e sapevo che sarei stata io a privarmi di te, e non il tempo, non la stanchezza o altre scuse d'ordinanza, mi ero ripromessa di trascrivere più fedelmente e dettagliatamente che potevo quello che ancora ero in grado di ricordare prima che cambiassi ambiente, sfondi, stanze, compagni, orari, abitudini, prima di allontanarmi materialmente da quella collezione di stimoli naturali che era la mia vita lavorativa quotidiana nei confronti di ogni cosa potesse essere catalogata come noi due. Proprio perché mi conosco, poi, non l'ho fatto, perché ho preferito, fra i mali possibili attraverso cui sarei comunque dovuta passare, arrivare a questo punto, in cui non mi manchi perché non sono più capace di sentire che tu sia stato presente in un periodo, vero, realmente accaduto, della mia vita.
Adesso sei un contenitore in cui conservo i racconti di tutte le cose di me che sei riuscito a cambiare, ma sono quasi tutte storie scritte dopo, quando già tu non c'eri più, quindi non credo valgano per assolvermi e perdonarmi questa volta, e allo stesso tempo sei un capitolo semplificato, rivisto, ritagliato fino a lasciarmi solo le linee portanti di una figura che non saprei più descrivere o disegnare, e se quando ho rivisto tutte quelle tue foto mi sono ritrovata a piangere in modo così violento e ridicolo è stato perché in quel momento ho scoperto di nuovo, e quindi poi ho dovuto accettare ancora, che eri davvero stato e che ti avevamo perso in un modo irrimediabile, tremendo, definitivo, oltre ogni stupido discorso sul tempo che passa, sull'insoddisfazione esistenziale e sul male di vivere.
Ci sono molte cose di me che non ti ho detto, e non perché non ne abbia avuto il tempo o l'occasione, ma perché ho preferito non spiegarti e non mostrarti chi ero e di cosa ero e sono capace, per vergogna e per paura che non avrei poi potuto continuare a vivere, come avevo bisogno di fare, in quel modo esatto in cui riuscivo a toglierti la paura, nonostante gli anni che ci dividevano, nonostante la tua bellezza così giovane e pulita contrapposta al mio sentirmi cronicamente inquieta e rovinata, nonostante i nostri ruoli, nonostante il tuo intuito fuori dal comune dal quale a volte ho dovuto inventare un modo per difendermi. Ho voluto lasciare tutto così com'era nato, un legame splendido, intimo, fatto dell'affetto più puro e immotivato, senza ragione o fondamento, senza parole e senza categorie, qualcosa di irripetibile.

mercoledì 29 febbraio 2012

veder passare immagini / senza permettersi il tempo per inseguirne il senso.

Questo tempo è la vita che mi rimane dopo che il resto ha preso la sua parte e non posso accettare di perderlo andando a dormire. È con questi ritagli che devo trovare il modo di occuparmi di me, farmi sfogare, esprimermi, divertirmi, calmarmi, parlare, creare, toccare, inventare, curarmi. Ho solo poche ore al giorno per rielaborare e sciogliere l'angoscia per la morte, per la perdita, più in generale per la docilità con cui ho lasciato che nonostante le premesse anche la mia diventasse una vita comune, ordinaria, con un lavoro invadente, espressioni forzate, scadenze regolari, piani aziendali, bilanci di spesa, stime di produttività, degenerazione, immagini di umiliazione fisica, fallimenti umani e terapeutici, cinismo, compromessi, vessazioni, obbedienza mascherata da consenso, subordinazione e vigliaccheria. Questo tempo sono io e se dormo finisce troppo in fretta, e con lui anche io finisco troppo in fretta. Ed è per questo che sono nervosa, non trovo pace in una posizione, continuo a muovermi, cambiare, toccare i contorni degli oggetti con le dita, per questo non riesco a pensare di dedicarmi ad una sola cosa per volta e cambio umore anche in maniera violenta quando mi accorgo di avere sonno, per questo anche mentre scrivo continuo a guardare, ascoltare, giocare, raccontarmi storie, per questo sento con così tanta urgenza di dover fare in fretta, mettere più cose che posso in queste ore, perché anche questo tempo sta passando e le notti ad un certo punto si concludono, mentre io continuo a dividermi fra l'ansia di creare e un sentimento perverso, pieno di rabbia, per il fatto di non potermi nemmeno concedere una tregua, dormendo.

domenica 26 febbraio 2012

light another candle and release me.

Sono sollevata al pensiero che sia già sera e che domani mattina mio padre riparta. Non mi era ancora successo di desiderare così intensamente che un periodo di tempo, anche se inatteso, ambiguo e a tratti grottesco, durasse poco e scivolasse via in fretta. Io sono sempre stata quella che ha cercato di tenerlo stretto, il tempo, anche quando questo significava moltiplicare le occasioni e le forme attraverso cui un dolore, il mio, si sarebbe potuto manifestare. Questi pochi giorni, invece, li ho letteralmente lasciati andar via come se fossero qualcosa di intercorrente, una piccola penitenza, una parentesi accidentale, come se lo stessi semplicemente ospitando a casa mentre lui è in viaggio verso la sua vera destinazione, una città in cui troverà un'altra figlia che, a differenza mia, lo sta aspettando come si aspetta un sollievo, come una persona che manca. Nel corso del tempo ho provato quasi ogni genere di sentimento nei suoi confronti, da uno smodato senso di colpa al desiderio esasperato di compiacere, dalla voglia di conquistarne l'attenzione e l'amore a quello di vedermi riconosciuta in quanto persona, autonoma, sana e libera, dal terrore per le sue reazioni alla compassione per i suoi tentativi assolutamente maldestri di parlarmi, raggiungermi e recuperarmi come figlia. Ho provato frustrazione, rabbia, disgusto, repulsione, desiderio di ribellione, attaccamento patologico e dipendenza, ho provato vergogna e senso di abbandono, ho portato il peso della responsabilità per la sua infelicità, ma forse non ho sentito mai la sua mancanza e non ho mai desiderato di averlo vicino, o più vicino.
In questi pochi giorni mi sono isolata più che ho potuto, l'ho lasciato materialmente da solo nonostante questa casa sia piccola e raccolta, non mi sono sforzata di intrattenerlo o farlo divertire, non ho iniziato alcun discorso e non ho raccolto le sue frasi che avrebbero voluto farlo, non ho parlato di me e ho sorriso molto poco, non mi sono sforzata di nascondermi dietro una facciata di coerenza e maturità, forse ho anche mortificato le sue speranze perché non l'ho abbracciato, non ho accettato che mi portasse fuori a pranzo e non gli ho concesso di comprarmi un regalo.

sabato 25 febbraio 2012

sooner or later you heal or you die.

Non riesco ad abbandonarmi nemmeno quando dormo, faccio dei sogni che sono allo stesso tempo lucidi e visionari, sogni rapidi che poi si dilatano in maniera inaspettata su un'immagine che è quasi sempre un intreccio di rimpianto e di angoscia, e lì si fermano per un tempo che, in accordo con le regole che valgono di notte, potrebbe essere anche solo qualche secondo ma è come un'eternità, come avere fra le mani tutto il tempo del mondo, sogni costruiti e vissuti con in sottofondo una coscienza così presente, vigile ed invadente da essere più simili a brevi episodi di tortura annunciata piuttosto che a degli esercizi notturni di stile.
Spesso mi sveglio, anche più volte durante una sola notte, accorgendomi che non stavo nemmeno sognando nel senso letterale del termine, ma stavo solo ripassando mentalmente elenchi di nomi o di situazioni, senza la bellezza delle immagini, senza l'esercizio della fantasia, senza tutti gli allestimenti e le costruzioni che mi farebbero essere più sana di quel sono, in quanto ancora capace di nascondere sotto la struttura di una storia quello che sento di dovermi raccontare ogni notte.
A volte si tratta semplicemente di cose che ho il terrore, anche immotivato, di dimenticare, i nomi degli oggetti, i posti in cui li ho lasciati, la loro posizione esatta l'ultima volta in cui li ho usati, la strada per tornare a casa partendo da più punti della città, il numero di case in cui ho vissuto, i modi per uscire anche al buio dalle stanze in cui ho dormito, la forma delle stazioni da cui parto più spesso, le scadenze, comprese quelle che ho già onorato.
Altre volte ancora si tratta di una collezione delle scene più umilianti, momenti di miseria, di semplice delusione, immagini di una perdita, gli errori materiali, quelli lavorativi e quelli affettivi, descrizioni fotografiche di un'incapacità di scegliere, di vivere e di smettere di rinunciare. E anche senza volermi consolare, mi dico che probabilmente svegliarmi è l'unico modo che ho per interrompere queste catene di immagini che altrimenti potrebbero continuare per un tempo intollerabile, diventando una persecuzione, facendomi perdere in una costruzione fatta di rimandi e assonanze che si accendono e si legano in maniera assolutamente incontrollabile, spontanea e rapida, da cui rischierei davvero, se mi abbandonassi anche solo per una notte, di riemergere poi un giorno qualunque senza più vita da vivere.

venerdì 24 febbraio 2012

nothing again. noone is listening.

Qualche notte fa ho sognato di trovare dei binari, interrotti, all'interno di una stanza. Accanto ai binari c'erano dei pezzi di rotaia accatastati uno sull'altro e dello spago. D'istinto ho provato a completare i binari aggiungendo alcuni di quei pezzi, ma nessuno combaciava, nemmeno grossolanamente, né c'era o si intuiva il modo in cui potessero legarsi fra loro.
Sapevo di avere a disposizione solo due modi per continuare a costruire quel binario, entrambi destinati a fallire dato che mi trovavo dentro un sogno in cui erano ancora vivi il senso della verosimiglianza e la ragionevolezza: lo spago non avrebbe dato alcuna garanzia di tenuta, in particolare visto che quei pezzi si articolavano così male fra di loro, e io non avevo i mezzi per trasportare tutta la struttura fuori dalla stanza per cercare qualcuno che potesse saldarli.
I pezzi erano leggeri, come se non fossero fatti di metallo, e mentre li spostavo, rigirandoli e provando a farli intrecciare in qualche modo, guardavo verso la porta d'ingresso della stanza usandoli proprio come pezzi di un gioco, come un filtro o una cornice, prima solo per caso, poi sempre più spesso, quasi con affanno, con un gesto che si modificava da un momento al successivo, riempiendosi di ansia e di un'anticipazione senza clemenza.
Sentivo che stavo fallendo ancora, questa volta in un compito che avevo scelto per caso, forse solo perché non riuscivo a sopportare il disordine di un'opera non compiuta e la vista dei pezzi, in attesa, sul pavimento.
E sentivo che allo stesso tempo non potevo più cambiare idea, tirarmi indietro, far finta anche solo di non averci provato, perché ero diventata quegli stessi pezzi: muovendoli mi accorgevo che si trattava ormai della naturale continuazione delle mie mani che per questo erano diventate brutte, troppo lunghe, imprecise, maldestre, inutili.
E mentre continuavo a guardare in direzione della porta, sapevo perfettamente che non si sarebbe affacciato nessuno ma avevo già dentro ugualmente il dolore, acuto come una minaccia, del momento in cui scopri che qualcuno è lì ad assistere al tuo fallimento mentre prende forma.

martedì 14 febbraio 2012

watch me dance, I'm a puppet. you can almost see the strings.

Per difendermi da ogni forma di delusione e tradimento, che non credevo e non credo ancora di essere in grado di sopportare e superare, quindi in generale per mettermi al riparo e conservarmi, ho imparato a mortificarmi quotidianamente fino al punto in cui ho disimparato a sperare; il mio cinismo e la mia incapacità di credere nascono proprio da questo lavoro rituale e rigoroso di mortificazione e umiliazione che ho scelto per sostituire quegli insegnamenti di vita, di convivenza sociale, più in generale di relazione, che non ho ricevuto per dimenticanza, per scarsa attenzione, per un'educazione fantasiosa e improvvisata, per l'assenza di un fratello o una sorella, per l'indole solitaria che ho ereditato dal ramo sbagliato, malato, della mia famiglia.
Ho iniziato già da piccola a costruirmi un repertorio di comportamenti che mi aiutavano a farmi male, ridimensionandomi, dandomi una lezione, svilendomi, ricordandomi e ripetendomi quanto poco contassi e quanto poco valore avessi, disegnando un senso esatto per la mia miseria. Comportamenti che mi facevano allo stesso tempo guadagnare autonomia e lucidità, anche se al prezzo di una consapevolezza dolorosa, di un disincanto prematuro e inadeguato alla mia età, di una perdita di vivacità ed entusiasmo, con una graduale e crescente incapacità a relazionarmi e con una perdita di valore, interiore, trasversale e assolutamente convincente.
Fin da piccola mi piaceva e mi serviva chiamare quando sapevo che non avrei potuto ricevere una risposta, perché nessuno era in casa ad esempio, aspettando fino all'esasperazione che qualcosa interrompesse il suono ripetitivo del telefono, sempre a vuoto; mi piaceva e mi serviva anche aspettare seduta vicino alla porta quando sapevo che per ore non sarebbe tornato nessuno.
Quando ero già più grande, forse uno degli ultimi anni di università, ho studiato per mesi, ogni sera, su una poltrona vicino all'ingresso, sperando che uno dei miei due genitori non tornasse a casa mettendo fine alla nostra famiglia, e l'ho fatto conoscendo a memoria gli orari di lavoro e le abitudini di ognuno, potendo prevedere con esattezza il momento in cui sarebbe arrivata la mia delusione.
Cambiando i dettagli devo aver generato decine di situazioni, tutte ugualmente frustranti, perché quello che contava era riuscire a ritagliarmi un angolo in cui poter rimanere con il mio desiderio in mano, ad aspettare di vederlo rovinato dal tempo, dagli eventi, anche solo dal silenzio o da un'assenza annunciata.

mercoledì 1 febbraio 2012

what do you get when you cross an insomniac, an unwilling agnostic and a dyslexic.

Il tempo non mi ha guarito e ora sono semplicemente una persona matura e nevrotica.
Nel corso degli anni ho tentato di dare la colpa del fatto di essermi scoperta ormai rovinata e inadatta a vivere a chiunque si fosse avvicinato a me quel tanto che bastava per avermi toccato o lasciato qualcosa di suo, ma ho mentito tutte le volte in cui ho detto che credo alle storie che mi racconto. Sembra quasi offensivo pensare che tutta la lucidità di cui sono capace - nel guardarmi, descrivermi, suddividermi in capitoli, rielaborarmi e darmi una nuova forma con le parole - possa essersi arresa di fronte ad un gioco di ruolo discreto ed essenziale, quasi primitivo, in cui io mi metto in castigo e poi non mi ribello. Sono nata incapace di vivere al di fuori di una stanza perché la mia capacità di immaginare si è arresa di fronte al compito di gestire l'angoscia per tutta la rete di possibilità non prevedibili, per i dialoghi, per le parole da dover decidere mentre il mondo accade e per la diversità, che è solo un altro nome per la moltitudine che così fa solo più paura. Sono stata io a chiedermi di restare in quella stanza, dopo aver misurato i contorni del dolore nato dall'inadeguatezza verso la compagnia, dalla profonda tensione interiore che trova uno sfogo solo nella solitudine, scelta e fortemente voluta, e dalla condanna a percepire la miseria in maniera puntuale e matematica in ogni circostanza. Sono stata io a rovinarmi creando una struttura di alibi in cui ciascuno ha potuto poi incastrare le proprie rimostranze quasi senza sforzo, sono stata io a far crescere l'orgoglio per un'autonomia assolutamente solitaria e silenziosa, dichiaratamente fallimentare, che mi ha fatto diventare solo più presuntuosa ed aggressiva, perché gelosa di un traguardo fittizio e allo stesso tempo terrorizzata all'idea che qualcuno potesse violarlo. Sono stata io a disegnare porte, chiavi e catene, per poi sedermi con le spalle contro il muro ad aspettare, continuando in silenzio a recriminare, ad agitarmi, arrabbiarmi, a vivere nell'angoscia di essere senza via d'uscita.

domenica 8 gennaio 2012

it would be wrong to refuse to face the fact that everything is fundamentally sick and sad.

Ho il problema di aver imparato un amore sbagliato, che nasce con un debito e si rinnova solo per colmarlo. Un amore senza gioia che deve dimostrare di essere utile, che ha valore e dignità solo se salva, guarisce o crea felicità. Qualcosa che assomiglia molto ad un dovere da onorare, ma che ha le qualità di un sentimento, autentico, doloroso, frustrante, ossessivo, avvilente, pervasivo.
Sono nata in una famiglia che non ha conosciuto felicità, assortita male perché, appunto, nata anche lei senza amore, assemblata per uno scopo. Lui voleva avere un figlio, sopra a ogni cosa e a qualunque prezzo, fosse anche manovrare e manipolare altre vite fino a rovinarle. Lei era un mezzo e, dunque, aveva concluso il suo compito facendomi nascere, ma era anche parte insostituibile dell'immagine familiare che a lui serviva per manifestare e proclamare davanti al mondo il compimento del suo scopo come essere umano, e riceverne di rimando il riconoscimento e l'approvazione. Lei ed io non eravamo, dunque, la sua famiglia, ma una parte sostanziale del componimento che aveva elaborato per rispondere alle domande e alle aspettative, proprie e altrui, raccolte lungo una vita. Per questo non ci era concesso allontanarci dal luogo esatto e dalla casa in cui ci trovavamo oppure essere meno ordinate, belle, sane, regolari e felici di quello che ci si aspettava che fossimo e rappresentassimo, ossia il meglio possibile.
Non si sono mai amati, credo. Lei l'ha sposato perché era bello e lei non lo era altrettanto, e perché aveva bisogno di qualcuno che la portasse via da un'altra famiglia infelice e claustrofobica, da un sistema capillare di sensi di colpa, dai ricatti affettivi, da un manicomio e da un padre suicida. Lui l'ha scelta come su un catalogo: ingenua e non così bella per essere più certo che potesse essere fedele, con un'indole insicura e dipendente per facilitare un legame che somigliasse più ad un attaccamento patologico piuttosto che a una storia d'amore, meno ricca di lui per far nascere fin da subito la riconoscenza e poterci lavorare fino a farla diventare un debito non colmabile, e con un forte desiderio di maternità per essere sicuro che esaudisse presto il suo desiderio. Nei dieci anni che hanno preceduto la mia nascita erano evidentemente troppo impegnati nel tentare e troppo frustrati e forse anche terrorizzati dall'idea che il figlio potesse anche non arrivare per pensare a quanto avrebbero voluto e dovuto allontanarsi l'uno dall'altro. Il solo fatto di partecipare ad un progetto comune, anche se fallimentare, bastava a tenerli uniti e a lasciare intatta l'illusione di essere una famiglia e la capacità di esserne simbolo. Dopo la mia nascita, invece, lei si è accorta di non essere felice e lui ha dovuto trovare tutti i modi, leciti e non solo, per tenerla legata, renderla non autosufficiente, toglierle la volontà e la progettualità, la capacità di agire, e ha fatto tutto in maniera così deliberata e sistematica da riuscire a farla sentire genuinamente disperata perché senza via d'uscita. Sono stati infelici insieme in tutti questi anni ed è questo l'amore che mi hanno insegnato, una coppia che non riesce a sciogliersi, legami come vincoli, rassegnazione, tensioni, sopportazione, dedizione senza ricompensa, una guerra di aspettative, incomprensioni, mancata appartenenza reciproca, ripetizione estenuante degli stessi conflitti per dare sfogo a tutto il male nato dall'aver rinunciato ad avere una vita, col rischio che potesse anche essere bella. Ma il dolore rende vigliacchi e progressivamente sempre meno attenti al dolore degli altri, per cui non riesco a rimproverarli per il fatto di aver cercato e trovato in me un appiglio, ma li rimprovero per il fatto di non aver saputo tacere quando sarebbe stato necessario. La frase che ricordo di aver sentito più volte nei primi anni di vita è proprio questa, non lo lascio perché c'è la bambina. Ricordo che quasi ogni settimana i miei genitori facevano venire a casa i loro più cari amici e spesso anche qualche parente, si chiudevano in sala e mettevano in scena il loro spettacolo, sempre uguale. Tante recriminazioni, molto dolore, a volte piangevano anche, e tutto questo per giungere a dire di essere sul punto di lasciarsi senza farlo mai, forse anche solo per sentirsi ripetere da amici e persone care presenti che non sarebbe stato un bene per me. Come se crescere con due genitori disastrosi e separati fosse matematicamente meno ordinato, naturale e sicuro per il mio sviluppo di crescere conoscendo solo infelicità e sapendo di esserne la causa. Mi ricordo spesso che mi mettevo in ginocchio dietro la porta della sala ad ascoltare e poi, quando sentivo di aver ascoltato a sufficienza, andavo in cucina, che era la camera esattamente di fronte al punto del corridoio in cui ero in ginocchio, e mi sedevo con le spalle appoggiate al muro guardando verso la porta. Da lì potevo sentire che parlavano ancora ma senza distinguere le parole, e potevo vedere l'ombra delle persone che camminavano intorno al tavolo. Mi sembrava di assistere ad un gioco, anche se già allora mi intristiva di riflesso lo spettacolo di un dolore così grande e così persistente, e in quel gioco io facevo il tifo per gli altri, non per mia madre e mio padre. Ero un'eccezione in quanto unica bambina a scuola a desiderare che i propri genitori si separassero, vivevo questa possibilità sognandola come una liberazione, fantasticavo al pensiero del sollievo che avrei provato, e, col passare del tempo e con l'aumentare dell'esasperazione per il fatto che, invece, continuavano a parlarne e a minacciarmi, senza prendere seriamente in considerazione l'idea, ho iniziato a sperare che uno dei due non tornasse più a casa. Quando già ero all'università e mio padre lavorava ancora fino a tardi, mi mettevo a studiare su una poltrona del soggiorno molto vicina alla porta d'ingresso perché da lì potevo sentire tutte le corse dell'ascensore e potevo contare il numero di persone che saliva e scendeva le scale, rientrando a casa o uscendo. E stavo lì concentrata allo stesso modo su quello che studiavo e sull'assenza di rumori provenienti dall'esterno che mi tranquillizzava perché mi lasciava sperare che un incidente o un colpo di testa, una decisione improvvisa avesse posto fine alla nostra famiglia.
Quella frase mi ha accompagnata per tutta la vita ed è qui ancora oggi, con lievi variazioni apportate durante gli anni per adattarsi meglio al grado e alla qualità del mio modo di soffrire e di dipendere da loro. Nei primissimi anni di vita, prima ancora che fossero certi che li potessi ascoltare e che potessi memorizzare tutto fino a ricordarlo adesso, alla soglia dei ventisette anni, dicevano a tutti e mi dicevano che erano costretti a rimanere insieme perché c'ero io, perché alla fine di quei dieci anni di tentativi avevano avuto una fortuna che si era dimostrata essere al tempo stesso una sfortuna, ossia ero nata e ora non potevano più essere liberi di andare. La famiglia di mia madre, in particolare, si è dimostrata in più occasioni sinceramente addolorata per la presenza di questa bambina, tanto desiderata e tanto cercata, che ora era la dimostrazione vivente del fatto che si dovesse stare molto attenti nel desiderare. Dopo qualche anno hanno iniziato a dire e a dirmi che rimanevano insieme solo perché ero ancora piccola, e dovevo sbrigarmi a crescere per permettergli di liberarsi. Eppure io ero sempre stata una bambina piuttosto assennata, calma, educata, con un forte senso del rispetto e della disciplina. Mi chiedevo in che modo potessi crescere più in fretta o anche solo dimostrare di farlo. Poi all'inizio dell'adolescenza mi sono ammalata e, di conseguenza, la versione è ancora cambiata: proprio ora che iniziavo ad avere l'età per affrontare una separazione, gli avevo fornito una nuova ragione per rinunciare. Dovevano rimanere insieme per prendersi cura della figlia malata, ignorando - colpevolmente o meno - che la causa della malattia potesse essere, fosse anche solo in parte, aver assistito per dieci anni o anche di più ad una quota di infelicità spietata e quotidiana causata dal fatto di essere nata o di non essere morta o scappata, dopo. Ho fatto tutto quello che mi veniva chiesto e detto di fare per guarire, sono stata disciplinata anche nel dolore. Ho letto i libri, parlato con psicologi e neuropsichiatri, ho raccontato, ho scritto, ho ricordato, analizzato, rigirato fra le mani tutte le mie cose più dolorose, ho viaggiato, ho provato a mettere in pratica i piccoli suggerimenti quotidiani, ho provato a mangiare da sola, a mangiare solo in compagnia di qualcuno che potesse controllarmi, a dedicare i pasti alle persone care, a camminare, a immaginare, a non dare la colpa, a non rinnegare le mie origini, a non odiare, a continuare ad amare nonostante il male. Ho provato a rendere tutto più rapido possibile, per liberare loro dalla responsabilità di assistermi e per liberare me dal pensiero di non farcela, sia a continuare a provare, sia a vivere. Ma se a distanza di altri quindici anni da quando mi sono ammalata sono ancora qui a scrivere e a ragionarci e ad analizzarmi per risolvermi, è evidente che non ce l'ho ancora fatta, ammesso che guarire fosse un obiettivo ragionevole e raggiungibile.
Dopo un adeguato numero di anni di malattia, trascorsi senza una concreta speranza di risoluzione, ma in qualche modo lasciati passare con la speranza che la maturità e la fine degli studi mi dessero la forza e la libertà che anni di riflessioni e tentativi non erano riusciti a lasciarmi, la frase è cambiata ancora. Adesso erano troppo anziani per rifarsi una vita ed erano stati, quindi, condannati da me, che avevo fornito un motivo sempre nuovo per rimanere insieme, ad una vecchiaia infelice dopo una vita infelice. E se li avessi lasciati da soli a gestire e a domare questa infelicità, avrei dimostrato una profonda ingratitudine e una mancanza di amore e comprensione, oltre a fornire una prova magistrale del mio egoismo che mi permetteva di non considerare quanto più profonda e intensa sarebbe stata la loro tristezza aggravata dalla mia assenza.