martedì 3 aprile 2012

anche ieri è un grande vuoto.

Il 23 dicembre del 1998 avevo tredici anni e ho ricevuto una telefonata con cui mia madre, che era al lavoro, mi informava che finalmente, dopo dieci anni e più di una malattia neurologica progressiva e imprecisata, mia nonna paterna era riuscita a morire. Lei mi ha detto solo vedi che è morta tua nonna, senza perifrasi, senza una nota di dispiacere nella voce, senza riguardo per il fatto che fosse il mio primo incontro con una perdita definitiva, come se fosse importante solo che io registrassi l'informazione. Ha detto proprio vedi come se volesse dirmi tienine conto, regolati di conseguenza, cerca di comportarti a modo, ha detto solo vedi ma intendeva vedi di non sorridere e, anzi, forse voleva dirmi ricordati di sembrare disperata. Credo, poi, che abbia detto tua nonna per sottolineare che dovevo sentirmi coinvolta, che si trattava di una morte che mi riguardava, perché già allora doveva essere evidente la distanza fra il mio aspetto disteso, pulito, allegro, sano e sorridente, tipico di una ragazzina ben educata e di buona famiglia, e il mio distacco patologico, la mia indole sfiduciata e accondiscendente, la mia pericolosa, spontanea, tendenza all'isolamento e al silenzio. Terminata la telefonata ho finito di sistemare la coperta pesante sul letto dei miei genitori perché era iniziato l'inverno. Non ho pianto fino al giorno successivo e non è stato per dolore; è successo perché, quando sono entrata nella casa dei miei nonni, mi sono trovata materialmente spinta verso la cucina, credo perché tutti avevano paura che mi venisse in mente di attraversare il corridoio ed entrare in camera da letto. Ho pianto, credo, per il fastidio di essere toccata da tutte quelle mani e forse perché siamo arrivati in casa nel momento esatto in cui le stavano mettendo il vestito buono, quello nuovo, e sentivo che le parlavano e le chiedevano di avere pazienza. Perché fra un attimo sarebbe finito e l'avrebbero lasciata riposare.

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