domenica 9 settembre 2012

morire è un lavoro.

Quello che sconvolge di un turno di guardia in un reparto oncologico o ematologico, in particolare per chi è giovane e quindi non evade e non si allontana, ma rimane sul campo, presente, fra le stanze, a guardare dentro una bocca, a sedare crisi di ansia, a rispondere a domande imprudenti, a toccare corpi in ogni stato e con ogni sentimento, dalla pietà alla miseria al disagio, ad osservare e ricevere, o più spesso a subire, quello che sconvolge è il tempo necessario a dimenticare, a ritornare umani, a rientrare in un sistema, anche elementare, di contatti e relazioni.
È un'esperienza che effettivamente non si supera e non si impara, ma si può soltanto dimenticare; se così non fosse, non saprei spiegare o definire con altre parole il gesto e lo slancio con cui si reitera e si ricomincia, dopo un giorno o due o tre, la stessa vita nello stesso posto di fronte alle stesse immagini di uomini in via di disfacimento, non saprei spiegarlo con parole che non siano abbandono, rinuncia, deriva, frammentazione, disgregazione, martirio, suicidio, intendo.

E la misura della profondità con cui ti scava dentro e ti svuota e ti sfianca, la misura del male che ti provoca, la dimensione del danno che ti lascia, di quanto ti rovina, è data unicamente dalla forza con cui, appena lasciato quel posto, hai bisogno di vita, di un'emozione che ti riscatti e che lo faccia senza riguardi, e che, anzi, dimostri di conoscere e di saper parlare lo stesso linguaggio di violenza di quella forza animale che ne ha creato il bisogno.
Contrastare la coscienza dell'irrimediabile con qualcosa di clamorosamente vivo, fare l'amore fino a stare male, letteralmente, fino a provare un dolore presente e materiale, rompere oggetti, lasciare segni, esternare, trovare qualcosa che superi in intensità il senso di morte, dire la verità. Su ogni cosa, dire la verità. Perché esistono certi gesti di un amore assolutamente puro e senza conforto, il sentimento che guida la mano che accarezza il corpo dentro cui c'è la persona che ami, anche se ormai deforme, assente, consumata, immagini con cui altrimenti non entreresti mai in contatto e di fronte alle quali rimani inerme, paralizzato nella consapevolezza dei tuoi errori, immagini che, quando hai in sorte la disgrazia di doverle subire, di assistere mentre ti attraversano, ti dimostrano nella maniera più cruda e traumatica l'incredibile idiozia di una rinuncia, la sconfinata stupidità dei tentativi non fatti, dei gesti trattenuti, delle emozioni controllate e negate, e, su tutte, la misera ignoranza che mi ha impedito di parlare e di desiderare.

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