domenica 29 luglio 2012

I can't grow without a weapon / or a dream.

Sono state le suore ad insegnarmi a scrivere, ma senza spiegarmi come si tenesse in mano la penna o, almeno inizialmente, a cosa mi servisse imparare quei segni. Disegnavano dei simboli, netti, puliti, armonici, in alto su dei fogli bianchi, e noi dovevamo limitarci a riprodurli, e anche se nessuno che io ricordi mi ha mai detto esplicitamente quanto fosse importante che io li disegnassi belli a mia volta, so di aver capito subito che il punto era esattamente quello, che non importava la mano che avremmo deciso di usare, la posizione delle dita, la schiena, l'atteggiamento del corpo, nessuno sarebbe venuto a correggerci, non importava il tempo che ci si doveva impiegare, ma solo l'ordine complessivo della pagina, la regolarità dei segni, il rispetto degli spazi e delle proporzioni, l'armonia del disegno complessivo. Mi hanno insegnato a scrivere come se fosse un modo per decorare i fogli. Mi ricordo il moto di ribellione e la delusione che ho provato il giorno in cui, dopo che avevamo ormai imparato, ci hanno spiegato che quei simboli erano lettere, e che con le lettere si componevano le parole; mi sembrava uno spreco tutta quell'attenzione per rendere bella una merce di scambio, il contenitore di un significato.
E poi per le parole c'erano già i suoni, quello sforzo per rappresentarle era solo un'inutile ripetizione, un rallentamento.
Ho iniziato subito a scrivere anche sulla pelle dato che nessuno aveva nominato le regole o le presunte applicazioni ortodosse e accettabili di quella che almeno a me sembrava solo una nuova forma di espressione, solo un modo, e una raccomandazione per stare attenti alle forme e ai segni. Con la mano destra riuscivo a scrivere su ogni parte del corpo tranne che sulla mano stessa e sul polso, ed è lì che quando ho avuto l'età per farlo ho scelto di fare un tatuaggio.
Ancora adesso pago il prezzo di quell'attenzione smisurata per il singolo segno, slegato non solo dalla visione d'insieme della parola ma anche dal resto della lettera di cui fa parte, tanto che mi capita ogni giorno, più volte al giorno, di rimanere a guardare quello che scrivo, mentre lo scrivo, anche senza avere un pensiero preciso, come se controllassi la qualità di una linea.
Anche il mio modo di tenere in mano la penna nasce dal primo periodo in cui ho imparato ad usarla, perché se quello che contava era davvero solo il risultato finale, allora potevo e, anzi, dovevo trovare il modo e la posizione che mi garantisse di controllarla al meglio, esattamente come un qualunque strumento.
E, per essere sicura più che potevo di lasciare sul foglio esattamente il segno che avrei dovuto o quello che avevo in mente, ho imparato istintivamente a tenere stretta la penna fra le dita, con forza, tanto che avere male alla mano destra è diventata un'abitudine, quasi la naturale prosecuzione del tempo passato scrivendo e la sensazione naturalmente associata all'idea di scrivere, prima di scegliere di farlo.
Ma, che io ricordi, questo non ha mai avuto una connotazione spiacevole, come di qualcosa da contrastare o risolvere, ma l'ho accettato come una sorta di male necessario, tanto che adesso che, per lavorare, scrivo molto ogni giorno, dopo un turno di guardia mi lamento spesso per il fatto di essere stanca, di avere male alla schiena o alle gambe, ma mai alle mani, e non perché non lo senta o non ci faccia caso, ma perché me lo aspetto come il fatto di avere fame o sonno, e mi stupirei del contrario, perché è vero che non voglio o, meglio, non posso, per indole, cedere e arrendermi al fatto di provare, come tutti, un dolore o un bisogno così atteso, prevedibile e umano, come appunto la fame o il bisogno di dormire, ma è altrettanto vero che li accetto come limiti e calcoli imperfetti, che vorrei soltanto non riguardassero anche me.

Quasi quattro anni fa ormai ho preso, da sola, un aereo che mi ha portato in America dove mi sarei fermata per qualche mese, senza calcolare in modo particolarmente attento i rischi di una scelta che era allo stesso modo tanto normale e possibile per una ragazza della mia età, quanto rivoluzionaria tenuto conto che la ragazza della mia età ero io. Per tutto il tempo del volo ho scritto perché non avrei saputo in che altro modo vivere quello che mi stava succedendo; era allo stesso tempo il mio modo di parlare, di ragionare, di sedare l'angoscia, di riempire il tempo, la distrazione per non guardare l'oceano sotto di me, era un gesto che potevo ripetere trattenendomi dal fare altro, tutt'altro, avrei potuto prendere a pugni lo schermo che avevo davanti, strappare la coperta che mi avevano dato, camminare per i corridoi fra i sedili, fare qualcosa che facesse rumore, e invece, per fortuna, potevo scrivere.
Non ricordo praticamente nulla di quello che ho scritto né di quello con cui, poi, ho continuato a riempire quel quaderno, che è forse l'ultima volta in cui ho scritto, seriamente, a mano. Rientrata in italia, l'ho regalato.

Quando cammino le gambe si toccano fra loro poco sopra il ginocchio, forse perché non ci ho fatto caso come avrei dovuto al momento in cui ho imparato a camminare e ora mi è rimasto questo difetto come un segno e un avvertimento degli effetti che può avere un attimo di noncuranza.

Sono in treno e non sono ancora le sette del mattino. Fuori la pianura è come dovrebbe essere, per una volta: semplicemente verde. C'è una ragazza qui accanto a me che è salita alla mia stessa stazione ma che non conosco perché non faccio parte del paese da cui sono partita più che della città verso cui sto andando.
Appena salita sul treno, con la stessa velocità e forse seguendo uno stesso automatismo, io ho preso il computer e lei ha aperto un quaderno, per mettersi a scrivere.

Mi è capitato di essere in macchina e di avere voglia di tirare il freno a mano, in un rettilineo a caso fra quelli che attraversano questa pianura senza forma e senza movimento. Non credo di voler morire, ma so di essere travolta e dominata, in alcuni casi, dal bisogno di fare qualcosa, compiere un gesto, cambiare la direzione di quello che sta succedendo, interrompere, intervenire, disturbare, anche a costo di rovinare.

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