venerdì 27 luglio 2012

what's the point of waiting for life to come.

Negli ultimi mesi mi sono accorta di non ricordare più per immagini, ma solo per particolari accidentali. Non mi capita di pensare alla mia famiglia senza un motivo contingente, non mi torna in mente l'immagine di mia madre o di mio padre, non ricordo spontaneamente la forma della mia stanza. Mi capitano, invece, delle associazioni violente e involontarie, portate dall'odore di qualcosa di marcio, dal gesto di svuotare i piatti dagli avanzi del pranzo, dal semplice vedere un viso che invecchia. Mia madre ormai è una voce dentro un telefono, mio padre nemmeno più quello. Della mia casa mi sono rimasti solo ricordi recenti, arrivi e partenze, valigie dietro la porta, l'ottundimento di chi si allontana o rientra nella sua vita quotidiana passando attraverso un aeroporto, l'odore dei vestiti vecchi che ho lasciato nei cassetti, il senso di abbandono e la nostalgia dei quaderni con i miei disegni accatastati sulla scrivania, il mio letto con le coperte colorate ma senza lenzuola, perché tanto non ci dorme più nessuno. Della mia casa sono rimaste solo le immagini di quando già non era più mia e iniziavo a tornarci da ospite, guardando gli oggetti come se appartenessero ad una persona che era stata lì ed era già stata me, prima di me.

Ieri sera sono tornata a casa quando già lei era andata via per fare la notte. Ero sul letto quando è suonato il telefono. Ho riconosciuto il numero, una sua amica che abita nel palazzo qui accanto e che lavora insieme a lei; guardo il telefono e sono tentata di non rispondere, non voglio parlare e non voglio intrattenere, non voglio proprio sentire il suono della mia voce che fa finta di niente, voglio solo un'altra canzone giusta subito dopo questa. E invece rispondo come se fosse la cosa più naturale del mondo e come se quegli ultimi secondi fossero serviti solo per raccogliere le forze e concentrarmi. Pronto, ambra? No. emanuela. Ciao, emanuela. C'è ambra?. No. Lavora. Ah, fa la notte? Già. Ah, niente. Avevi bisogno di lei? Sì. Volevo farle una domanda. Capito. E tu? Io? Sì, come stai? Sono tornata a casa ora. Ambra la trovi domani. Sì, ok. Va bene? Certo. Hai cenato? Io? Sì, tu. Non ci ho ancora pensato. Emanuela, posso chiedere a te, magari lo sai anche tu. Sì. Sai se le nostre ferie sono cumulative di anno in anno? Non so proprio, non me lo sono mai chiesta. No, perché io ho bisogno di tornare a casa, devo farlo assolutamente, non riesco più, è diventato troppo, voglio stare via almeno tre settimane, ma se lo faccio e poi magari torno a casa a natale mi ritrovo a non avere più ferie e come faccio ad arrivare fino a maggio, l'esame, tutti quei mesi, la prossima estate, no, non riesco. non so se capisci cosa intendo. E si mette a piangere.
Poi cambia discorso, mi parla del suo pranzo, di turni, del caldo, mi dice che ha ripulito e rimesso in ordine la sua stanza, che domani ha solo due pazienti da vedere, che a novembre va via dall'Italia per un matrimonio, che anche quelle sono ferie, e niente, ritorna sullo stesso argomento, dice che ha bisogno di sapere, perché poi magari non vuole più tornare a casa, ma non può accettare di sapere già di non poterlo fare, tutto ma non questo limite, mi chiede di me, quando torno a casa, dice che posso capirla, avendo la famiglia lontana, poi mi saluta, mi dice che le spiace avermi disturbato. E io mi alzo e faccio un giro inutile in casa, toccando tutte le stanze per essere sicura di essere sola.

A saperli leggere, in quella mia stanza c'erano già tutti i segni di quello che sarei diventata, non tanto dell'intensità ma del modo in cui avrei sofferto, il carattere, i gesti, la compostezza, forse anche l'autonomia e l'indipendenza anche nel dolore, la voglia di controllarlo, conoscerlo, tentare di dominarlo. E ora che quegli oggetti sono tutti ammucchiati e compressi in una stanza, rientrarci è come aprire un canale della memoria che guarda dentro un sogno e ne parla lo stesso linguaggio, non ci sono vincoli temporali e non si deve soddisfare un criterio di coerenza o di unità: il primo gioco che mi hanno messo in culla, i libri che ho letto al liceo, un pianoforte, il certificato di iscrizione all'ordine dei medici, le parole con cui avevo ricoperto le pareti intorno al mio letto che qualcuno ha staccato dopo che sono andata via, minuscole bambole tailandesi che sulla carta avrebbero dovuto aiutarmi a dormire, se lasciate sotto il cuscino, coperte fatte a mano da mia madre, biglietti d'aereo, giornali, una scatola piena di colori di ogni tipo, alcuni ormai secchi, inutilizzabili, tutto ricco e pulito, perfettamente in ordine, ma non come se si fosse in attesa di un ritorno, ma come uno sforzo per tenermi insieme, per non disgregarmi, come individuo e come ricordo. Come se mia madre avesse paura di perdermi in maniera più profonda o più definitiva dimenticando qualcuno dei miei slanci o delle mie strane abitudini, come se la sua capacità di essere madre e di riconoscersi ancora come tale dipendesse dal mio esistere ancora, lì nella camera accanto, ordinatamente scomposta in tutti i miei tratti fondamentali.

2 commenti:

  1. riesci a disegnare una vita, i suoi vuoti, e le ansie che la costellano, da poche frasi dette al telefono. e tutto quello che lasci immaginare.

    e poi, di te, invece, dici attraverso gli oggetti, o le distanze che misuri dalle persone e dalle situazioni.
    non c'è nulla che ti sta vicino. non c'è nulla che tieni tu, vicino a te.
    che strana sensazione che dà, leggerti, stavolta, emanuela....
    :-)

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  2. Oh ecco. Ora che leggo il nome son sicuro. Ferrara, etc. E come l'amica della tua coinquilina, "mi spiace di aver disturbato". Notte.

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