giovedì 5 aprile 2012

vi è nel popolo un dolore muto e rassegnato, che si ritrae in sé e tace.

Mia nonna non parlava molto, prima ancora che per colpa della sua malattia, che pian piano le aveva tolto i movimenti, l'autonomia, la forza e, in ultimo, anche la parola, lei lo faceva perché aveva una consapevolezza dolorosa di certi suoi presunti limiti espressivi e perché temeva l'umiliazione più di ogni altro possibile castigo accidentale. Lo stesso tipo di silenzio affettivo spiega il perché fosse così restia a manifestare il suo stato d'animo con un gesto o con una decisione. La ricordo immobile, altissima, con un corpo maschile, ingombrante, le dita delle mani intrecciate, l'espressione tesa, gli occhi chiari e lo sguardo fisso di una straniera o di un animale che ha paura; sembrava costantemente alle prese con qualcosa troppo più grande di lei, guardava il mondo come se vivere e dover parlare per vivere fossero uno sproposito e al tempo stesso una vergogna, un'indecenza. Sembrava non avere nessun grado di familiarità con il corpo, come se nella sua educazione ci fosse una mancanza strutturale, una completa ignoranza, era un miracolo o forse una contingenza imprevedibile il fatto che fosse riuscita ad essere una madre.
Mi sono accorta anni dopo averla persa che con il suo modo silenzioso, metodico e privato di esistere era riuscita a insegnarmi ad essere discreta e delicata anche nel momento della rinuncia. La notte prima della mattina in cui è mancata ha calcolato la durata esatta del suo matrimonio e, quando mio nonno si è svegliato, lei gliel'ha semplicemente comunicato, siamo stati insieme cinquantaquattro anni, tre mesi e sei giorni.

3 commenti:

  1. La nostra generazione avrà forse il problema inverso. Una quantità irrilevante di parole indelicate, e rapporti dalla durata relativa.

    Spero siano stati buoni insegnamenti, i suoi.

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  2. tu comunque mi piaci tanto, per quel che conta.

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  3. non mi sono neanche firmata, che stalker...

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