domenica 8 gennaio 2012

it would be wrong to refuse to face the fact that everything is fundamentally sick and sad.

Ho il problema di aver imparato un amore sbagliato, che nasce con un debito e si rinnova solo per colmarlo. Un amore senza gioia che deve dimostrare di essere utile, che ha valore e dignità solo se salva, guarisce o crea felicità. Qualcosa che assomiglia molto ad un dovere da onorare, ma che ha le qualità di un sentimento, autentico, doloroso, frustrante, ossessivo, avvilente, pervasivo.
Sono nata in una famiglia che non ha conosciuto felicità, assortita male perché, appunto, nata anche lei senza amore, assemblata per uno scopo. Lui voleva avere un figlio, sopra a ogni cosa e a qualunque prezzo, fosse anche manovrare e manipolare altre vite fino a rovinarle. Lei era un mezzo e, dunque, aveva concluso il suo compito facendomi nascere, ma era anche parte insostituibile dell'immagine familiare che a lui serviva per manifestare e proclamare davanti al mondo il compimento del suo scopo come essere umano, e riceverne di rimando il riconoscimento e l'approvazione. Lei ed io non eravamo, dunque, la sua famiglia, ma una parte sostanziale del componimento che aveva elaborato per rispondere alle domande e alle aspettative, proprie e altrui, raccolte lungo una vita. Per questo non ci era concesso allontanarci dal luogo esatto e dalla casa in cui ci trovavamo oppure essere meno ordinate, belle, sane, regolari e felici di quello che ci si aspettava che fossimo e rappresentassimo, ossia il meglio possibile.
Non si sono mai amati, credo. Lei l'ha sposato perché era bello e lei non lo era altrettanto, e perché aveva bisogno di qualcuno che la portasse via da un'altra famiglia infelice e claustrofobica, da un sistema capillare di sensi di colpa, dai ricatti affettivi, da un manicomio e da un padre suicida. Lui l'ha scelta come su un catalogo: ingenua e non così bella per essere più certo che potesse essere fedele, con un'indole insicura e dipendente per facilitare un legame che somigliasse più ad un attaccamento patologico piuttosto che a una storia d'amore, meno ricca di lui per far nascere fin da subito la riconoscenza e poterci lavorare fino a farla diventare un debito non colmabile, e con un forte desiderio di maternità per essere sicuro che esaudisse presto il suo desiderio. Nei dieci anni che hanno preceduto la mia nascita erano evidentemente troppo impegnati nel tentare e troppo frustrati e forse anche terrorizzati dall'idea che il figlio potesse anche non arrivare per pensare a quanto avrebbero voluto e dovuto allontanarsi l'uno dall'altro. Il solo fatto di partecipare ad un progetto comune, anche se fallimentare, bastava a tenerli uniti e a lasciare intatta l'illusione di essere una famiglia e la capacità di esserne simbolo. Dopo la mia nascita, invece, lei si è accorta di non essere felice e lui ha dovuto trovare tutti i modi, leciti e non solo, per tenerla legata, renderla non autosufficiente, toglierle la volontà e la progettualità, la capacità di agire, e ha fatto tutto in maniera così deliberata e sistematica da riuscire a farla sentire genuinamente disperata perché senza via d'uscita. Sono stati infelici insieme in tutti questi anni ed è questo l'amore che mi hanno insegnato, una coppia che non riesce a sciogliersi, legami come vincoli, rassegnazione, tensioni, sopportazione, dedizione senza ricompensa, una guerra di aspettative, incomprensioni, mancata appartenenza reciproca, ripetizione estenuante degli stessi conflitti per dare sfogo a tutto il male nato dall'aver rinunciato ad avere una vita, col rischio che potesse anche essere bella. Ma il dolore rende vigliacchi e progressivamente sempre meno attenti al dolore degli altri, per cui non riesco a rimproverarli per il fatto di aver cercato e trovato in me un appiglio, ma li rimprovero per il fatto di non aver saputo tacere quando sarebbe stato necessario. La frase che ricordo di aver sentito più volte nei primi anni di vita è proprio questa, non lo lascio perché c'è la bambina. Ricordo che quasi ogni settimana i miei genitori facevano venire a casa i loro più cari amici e spesso anche qualche parente, si chiudevano in sala e mettevano in scena il loro spettacolo, sempre uguale. Tante recriminazioni, molto dolore, a volte piangevano anche, e tutto questo per giungere a dire di essere sul punto di lasciarsi senza farlo mai, forse anche solo per sentirsi ripetere da amici e persone care presenti che non sarebbe stato un bene per me. Come se crescere con due genitori disastrosi e separati fosse matematicamente meno ordinato, naturale e sicuro per il mio sviluppo di crescere conoscendo solo infelicità e sapendo di esserne la causa. Mi ricordo spesso che mi mettevo in ginocchio dietro la porta della sala ad ascoltare e poi, quando sentivo di aver ascoltato a sufficienza, andavo in cucina, che era la camera esattamente di fronte al punto del corridoio in cui ero in ginocchio, e mi sedevo con le spalle appoggiate al muro guardando verso la porta. Da lì potevo sentire che parlavano ancora ma senza distinguere le parole, e potevo vedere l'ombra delle persone che camminavano intorno al tavolo. Mi sembrava di assistere ad un gioco, anche se già allora mi intristiva di riflesso lo spettacolo di un dolore così grande e così persistente, e in quel gioco io facevo il tifo per gli altri, non per mia madre e mio padre. Ero un'eccezione in quanto unica bambina a scuola a desiderare che i propri genitori si separassero, vivevo questa possibilità sognandola come una liberazione, fantasticavo al pensiero del sollievo che avrei provato, e, col passare del tempo e con l'aumentare dell'esasperazione per il fatto che, invece, continuavano a parlarne e a minacciarmi, senza prendere seriamente in considerazione l'idea, ho iniziato a sperare che uno dei due non tornasse più a casa. Quando già ero all'università e mio padre lavorava ancora fino a tardi, mi mettevo a studiare su una poltrona del soggiorno molto vicina alla porta d'ingresso perché da lì potevo sentire tutte le corse dell'ascensore e potevo contare il numero di persone che saliva e scendeva le scale, rientrando a casa o uscendo. E stavo lì concentrata allo stesso modo su quello che studiavo e sull'assenza di rumori provenienti dall'esterno che mi tranquillizzava perché mi lasciava sperare che un incidente o un colpo di testa, una decisione improvvisa avesse posto fine alla nostra famiglia.
Quella frase mi ha accompagnata per tutta la vita ed è qui ancora oggi, con lievi variazioni apportate durante gli anni per adattarsi meglio al grado e alla qualità del mio modo di soffrire e di dipendere da loro. Nei primissimi anni di vita, prima ancora che fossero certi che li potessi ascoltare e che potessi memorizzare tutto fino a ricordarlo adesso, alla soglia dei ventisette anni, dicevano a tutti e mi dicevano che erano costretti a rimanere insieme perché c'ero io, perché alla fine di quei dieci anni di tentativi avevano avuto una fortuna che si era dimostrata essere al tempo stesso una sfortuna, ossia ero nata e ora non potevano più essere liberi di andare. La famiglia di mia madre, in particolare, si è dimostrata in più occasioni sinceramente addolorata per la presenza di questa bambina, tanto desiderata e tanto cercata, che ora era la dimostrazione vivente del fatto che si dovesse stare molto attenti nel desiderare. Dopo qualche anno hanno iniziato a dire e a dirmi che rimanevano insieme solo perché ero ancora piccola, e dovevo sbrigarmi a crescere per permettergli di liberarsi. Eppure io ero sempre stata una bambina piuttosto assennata, calma, educata, con un forte senso del rispetto e della disciplina. Mi chiedevo in che modo potessi crescere più in fretta o anche solo dimostrare di farlo. Poi all'inizio dell'adolescenza mi sono ammalata e, di conseguenza, la versione è ancora cambiata: proprio ora che iniziavo ad avere l'età per affrontare una separazione, gli avevo fornito una nuova ragione per rinunciare. Dovevano rimanere insieme per prendersi cura della figlia malata, ignorando - colpevolmente o meno - che la causa della malattia potesse essere, fosse anche solo in parte, aver assistito per dieci anni o anche di più ad una quota di infelicità spietata e quotidiana causata dal fatto di essere nata o di non essere morta o scappata, dopo. Ho fatto tutto quello che mi veniva chiesto e detto di fare per guarire, sono stata disciplinata anche nel dolore. Ho letto i libri, parlato con psicologi e neuropsichiatri, ho raccontato, ho scritto, ho ricordato, analizzato, rigirato fra le mani tutte le mie cose più dolorose, ho viaggiato, ho provato a mettere in pratica i piccoli suggerimenti quotidiani, ho provato a mangiare da sola, a mangiare solo in compagnia di qualcuno che potesse controllarmi, a dedicare i pasti alle persone care, a camminare, a immaginare, a non dare la colpa, a non rinnegare le mie origini, a non odiare, a continuare ad amare nonostante il male. Ho provato a rendere tutto più rapido possibile, per liberare loro dalla responsabilità di assistermi e per liberare me dal pensiero di non farcela, sia a continuare a provare, sia a vivere. Ma se a distanza di altri quindici anni da quando mi sono ammalata sono ancora qui a scrivere e a ragionarci e ad analizzarmi per risolvermi, è evidente che non ce l'ho ancora fatta, ammesso che guarire fosse un obiettivo ragionevole e raggiungibile.
Dopo un adeguato numero di anni di malattia, trascorsi senza una concreta speranza di risoluzione, ma in qualche modo lasciati passare con la speranza che la maturità e la fine degli studi mi dessero la forza e la libertà che anni di riflessioni e tentativi non erano riusciti a lasciarmi, la frase è cambiata ancora. Adesso erano troppo anziani per rifarsi una vita ed erano stati, quindi, condannati da me, che avevo fornito un motivo sempre nuovo per rimanere insieme, ad una vecchiaia infelice dopo una vita infelice. E se li avessi lasciati da soli a gestire e a domare questa infelicità, avrei dimostrato una profonda ingratitudine e una mancanza di amore e comprensione, oltre a fornire una prova magistrale del mio egoismo che mi permetteva di non considerare quanto più profonda e intensa sarebbe stata la loro tristezza aggravata dalla mia assenza.