lunedì 26 marzo 2012

I hope for your life / you forget about mine.

Quando ero ancora molto piccola, nel personalissimo sistema di valori, colpe, ordini e gerarchie nato come regolamento interno della mia famiglia, la responsabilità per il mio aspetto era di mia madre che aveva il compito di darmi da mangiare e di controllare che tutto quello che mi riguardava cadesse splendidamente nella media attesa per tutti i bambini della mia età e con le mie potenzialità, con gli occhi chiari e tantissimo tempo a disposizione per imparare. In questo modo mio padre riusciva a controllarci entrambe con un unico gioco, avendo trasformato il compito già terribilmente complesso di essere genitore e, peggio, di essere madre, in una vera e propria prova di valore, in un esame di vita, una tortura quotidiana, e allo stesso tempo facendomi diventare oggetto e soggetto in quel sistema di significati e sentimenti, malato già allora, che era il loro rapporto di coppia.
Era già molto forte in me il bisogno di compiacere i desideri e le aspettative di mio padre, ed era ugualmente forte il senso di alleanza e lealtà verso mia madre, tanto che, se avessi saputo come fare e se questo mi avesse garantito la loro felicità come coppia e come famiglia, mi sarei impedita di crescere.
Mio padre osservava, esaminava e giudicava quasi ogni cosa riguardante il mio aspetto e la mia crescita, il colore dei vestiti, la lunghezza dei capelli, il modo di parlare, la calligrafia, quello che mangiavo e quanto pesavo, quello che dicevo e quello che mi piaceva fare. La maggior parte delle volte non si trattava di cose che rispecchiavano o traducevano la mia identità, che era ancora molto primitiva e forse solo accennata, ma anzi io ero solo un supporto per le proiezioni del carattere e del gusto di mia madre, e mio padre, che ne era ben consapevole, scommetto, si serviva di me per osservare, esaminare e giudicare lei, criticandola e mortificandola per il fatto di non essere elegante, aggraziata e femminile quanto lui avrebbe voluto, richiesto e meritato. Lui mi guardava e trovava un errore, a volte qualcosa di esteriore, modificabile, un accessorio, un colore, un'espressione troppo da bambina o troppo da adulta, una smorfia, un sorriso di troppo, altre volte qualcosa di sostanziale, la forma delle mani o della schiena, il semplice fatto che ero cresciuta e iniziavo a somigliare ad una ragazza, e non c'era rimedio, potevo solo aspettare che smettesse.
Ricordo che una volta mia madre si mise a piangere dopo avermi guardato, credo fosse un momento di sconforto o di estrema stanchezza, non ricordo se stavo facendo il bagno o mi stavo semplicemente cambiando, ma so che le è bastato vedermi senza il maglione per accorgersi che non ce l'aveva fatta, ero cresciuta lo stesso e lo avevo fatto male, non ero stata graduale come mi aveva pregato di fare, piuttosto mi ero svegliata un giorno già perfettamente con la forma di una donna. Evidentemente mi aveva dato da mangiare più del dovuto, ma era rimediabile, era questo che ho pensato e che le ho detto per consolarla e farla smettere di piangere, ma lei è uscita velocemente dal bagno, lasciandomi lì ad impiegare anni per capire che aveva ragione, non era per niente rimediabile.
Da questo episodio e dai mille altri che per mia fortuna non ricordo credo nasca il disagio nel sostenere uno sguardo, il fastidio di accorgermi e, quindi, di sapere che proprio in questo momento qualcuno mi sta guardando, la tensione nel non riuscire a chiedere di smetterla, di non insistere, il castigo che si porta dietro la buona educazione.

mercoledì 21 marzo 2012

it rained all night and then all day.

Mio padre mi ha voluto come è capace di volere solo chi non ha mai conosciuto pace, con rabbia, violenza, a tratti con cattiveria, con un amore crudo e troppo pieno di desiderio per essere gestito con equilibrio e dolcemente. Lui voleva più di ogni altra cosa che io nascessi e poi che fossi femmina e bella, solo che deve aver sopravvalutato le sue capacità di gestire l'emozione e forse anche più in generale la bellezza. Ha passato i primi anni quasi senza parlarmi, non perché cercasse di ignorarmi ma semplicemente perché ne era incapace, manifestando inconsapevolmente quel tipo esatto di incomunicabilità e distanza che lega fra loro le persone che dovrebbero amarsi per vincolo di parentela, per consuetudine sociale, per vicinanza, ma che non hanno avuto in sorte il talento di saper vivere i sentimenti con naturalezza e con umanità. Dopo un adeguato numero di anni di silenzio, in cui si è dedicato a studiarmi in quanto fonte di illusione, perdita e tradimento, ha provato a difendersi da tutti i pericoli che iniziavo ad incarnare cercando di rovinarmi, anche solo come forma ed immagine, tagliandomi i capelli fino a farmi sembrare un maschio, controllando che non prendessi troppo peso, rischiando di iniziare ad assumere forme più dolci, femminili, e poi comprandomi i vestiti adatti a nascondermi quando con il tempo è diventato inevitabile non avere più il corpo di una bambina.
Fra i vari aspetti della mia crescita i capelli in particolare erano diventati per mio padre un motivo concreto di angoscia e allo stesso tempo una fonte di frustrazione quotidiana, mi ricordo l'espressione con cui, ogni volta che si accorgeva che stavano ricrescendo, mi si avvicinava per convincermi a tagliarli, e mi ricordo il suo modo di muoversi e il tono agitato con cui mi parlava, quasi rimproverandomi, comportandosi come se non ci fosse tempo da perdere, come se ogni giorno in più trascorso con l'aspetto di una bambina fosse un rischio inaccettabile, un affronto, e se non cedevo alla sua richiesta di tagliarli lui mi minacciava, e se non cedevo nemmeno alla minaccia si agitava e si innervosiva come se stesse perdendo il controllo sul mio intero progetto di crescita o come se si trovasse davanti ad una mia ribellione deliberata contro la sua autorità, un modo per maltrattare già così presto un suo desiderio, qualcosa a cui doveva opporsi rapidamente, prima che diventasse troppo grande e autonoma, forse non più reversibile. È stato in quel momento che ho iniziato a volermi nascondere e ad avere vergogna, pur non avendo ancora l'età per riconoscere questo sentimento o per imparare a leggerne o a scriverne il nome, sapendo solo di averlo conosciuto come un castigo e di doverlo onorare come unico rimedio alla mia colpa di essere me.

domenica 11 marzo 2012

the more that you appear.

Per la prima parte della mia vita ho avuto un modo di desiderare che è stato illusorio per definizione, speravo nel manifesto dell'impossibile o in qualcosa che era puntualmente al di fuori del mio controllo, nel miracolo in cui per prima non sapevo come credere, e non lo facevo solo per ricevere quella delusione già annunciata che mi avrebbe dato una ragione e una giustificazione per continuare ad essere e a mostrarmi così cinica, ma anche e soprattutto perché, paradossalmente, non volevo sapere se fossi in grado o meno di desiderare in maniera sana o se avesse senso farlo, ed il modo più semplice per garantirsi di continuare a non saperlo era impegnarsi per lasciare che tutto rimanesse nel campo del dichiaratamente inverosimile, dove si era al sicuro tanto dal rischio di aver ragione quanto da quello di essere pericolosamente corretti e smentiti.
Speravo in parole ampie e tutto sommato vuote, come guarigione o separazione, speravo in una rivoluzione, in un epilogo rapido, plausibile, risolutivo, in un'assoluzione, un'amnistia, una liberazione, speravo che crescendo sarei diventata sempre meno simile a me, fino al giorno in cui non sarei più riuscita a ricordarmi e avrei potuto finalmente iniziare a vivere come se io non fossi mai successa. Continuavo a raccontarmi delle storie esattamente come facevano tutti gli altri, anche quelli che disprezzavo per la loro disarmante semplicità che li rendeva prevedibili e forse anche banali, con la sola differenza che io, pur avendole inventate e costruite con tanta cura e forse anche con amore, potevo solo fingere di credere alle mie storie.
Nella seconda parte della mia vita, invece, ho deciso di avere solo obiettivi concreti, per la maggior parte lavorativi, logistici, materiali, e li ho raggiungi senza nemmeno cercare di prendermi in giro chiamandoli desideri, considerandoli semplicemente come il completamento naturale di una storia che era stata già tutta scritta nelle premesse e che io mi stavo limitando a non rovinare.
Poi sono arrivati gli ultimi due anni che sono stati un'alternanza di traguardi altissimi e sconfitte assolute, fondamentali, senza una parvenza di pace o di stabilità fra un evento e il successivo, sono stati un esercizio continuo per imparare a mostrare di essere felice, anche quando era solo l'immagine di un'altra felicità, estranea, non mia, e a fallire sempre meglio, con più grazia e senza rabbia. Questi due anni sono stati più di ogni altra cosa la consacrazione della mia crescita, per cui ad oggi non ho più attenuanti. Di riflesso i miei desideri sono diventati minimali, elementari, quasi ridicoli, riuscire a tornare a casa prima dell'ora in cui viene chiuso anche l'ingresso principale dell'ospedale, avere almeno una sera in cui poter stare esclusivamente da sola, per non dover fingere, avere in tasca le monete già pronte per un caffè e le chiavi di una stanza in cui nascondermi, non solo in silenzio ma al buio anche in pieno giorno, cercando un sollievo momentaneo dall'eccesso di stimoli, umani e pieni di dolore, davanti ai quali sono ancora così inerme da farmi quasi rabbia, cercare di sbagliare meno possibile, non tralasciare o, peggio, dimenticare, essere ordinata, avere vestiti puliti e un viso nuovo ogni giorno, non trovare troppo freddo in strada e poi a casa.
Mi ricordo che esattamente un anno fa, mentre si stava avvicinando il mio compleanno, mi sono accorta per la prima volta di non essere più capace di formulare un desiderio che non fosse il semplice sopravvivere ad una giornata di vita e di lavoro scelta a caso, mentre ero perseguitata da pensieri che mi parlavano di bilanci, descrizioni e calcoli dettagliati di quello che avevo sprecato o perso. In quei giorni mi ricordo che cercavo solo di attraversare il tempo rimanendo indenne, arrivando fino a sera senza concedermi troppe possibilità per umiliarmi o provare vergogna e disprezzo per quello che ero diventata. Mi faceva compagnia il pensiero di essere assolutamente imbrigliata nel presente, incapace come ero tanto di guardare al futuro, con desiderio e volontà, quanto di rivivere il passato, ripensando a quello che era già stato senza una nostalgia intollerabile e senza dolore. Per mia fortuna in quel presente c'eri tu e questo bastava a darmi la tranquillità sufficiente per non raggiungere e non oltrepassare il confine fra il male di vivere comune, ripulito, rielaborato, musicale, quasi artistico, e la vera malattia di mente. Ho capito solo molto tempo dopo che era stato merito tuo se in quei mesi ero riuscita a fermarmi un passo prima di perdere la ragione, e che la tua mancanza era ed è uno dei motivi per cui, invece, adesso mi ci sto pericolosamente avvicinando. Venirti a svegliare ogni mattina era un piccolo miracolo quotidiano, in particolare per una persona come me che non aveva mai imparato o conosciuto i gesti, i tempi e i modi di una famiglia, e che non sapeva come muoversi di fronte ad una dolcezza così assoluta, senza parole e senza rimedio.
In questi stessi giorni di un anno fa mi sono ritrovata ad avere un desiderio, stupido, immediato, spontaneo e sincero, un desiderio vero, qualcosa in cui non puoi credere ma che vuoi anche contro ogni evidenza, qualcosa per cui ti sono rimaste solo le speranze, se ne sei capace. Per il mio ventiseiesimo compleanno ho espresso come unico desiderio quello di essere presente il giorno in cui li avresti compiuti tu, questo numero spropositato di anni, ma non è servito.

mercoledì 7 marzo 2012

and your delusions / are mine instead.

Soffro d'angoscia, c'è poco da girarci intorno con le parole. Sono vittima, nel senso letterale del termine, di rapidi e imprevedibili momenti di smarrimento misto a rabbia mista a paura mista a desiderio di vendetta e rivalsa misto a frenesia, è come se mi arrivasse contro e dentro una descrizione troppo esplicita e viva di una vita statica, immutabile, sprecata, per rimanere fisicamente ferma, ed in quel momento a guidarmi è una sorta di bisogno cieco di muovere, esprimere, manifestare, essere presente, far rumore, fare male. A far accendere uno di questi momenti può essere anche semplicemente il fatto di accorgermi, guardando attraverso la finestra, che è già diventato buio e un'altra giornata si è conclusa, e non importa quanto ho fatto e quanto sento di averla vissuta, perché è una reazione inconsulta, irragionevole, una scenata a priori, un moto elementare, primitivo, è rabbia non più controllata, è la paura più umana fra tutte, quella per il tempo che passa.
In quei momenti mi è già capitato di voler rompere degli oggetti e di riuscirci, senza provare alcun sentimento che non fosse il semplice appagamento del bisogno di rovinare qualcosa, senza partecipazione e senza dispiacere, mi è capitato di alzare la voce, infierire, reagire male e a volte con disprezzo anche a quei gesti d'amore che ho desiderato al punto da creare con la loro assenza un mio debito, colpevole e personale, quegli stessi gesti che non so smettere di invidiare a chi è più capace di me ad amare, mi è capitato di cercare uno specchio per guardarmi e concentrarmi, per raccogliere e provare tutta la compassione che merito per il fatto di non riuscire ad essere libera mai, nemmeno in quel momento di verità, cruda e immediata, per quell'espressione composta e contenuta che ho anche nell'istante di massima ribellione interiore, quando la paura di aver sbagliato modo, tempo, direzione e volontà supera di gran lunga ogni possibile talento, la mia presunta profondità di pensiero e la più elegante fra le sue espressioni.

sabato 3 marzo 2012

right as rain.

Dopo i primi due anni di lavoro in reparto, il giorno in cui è arrivato il momento di smettere, di cambiare, mi sono ritrovata in mente solo due pensieri, silenziosi, discreti, ordinati, quasi umili. Il primo era scontato, non mi sentivo all'altezza del ruolo che avrei dovuto ricoprire, e ora che sono passati due mesi posso confermare che non lo ero, ma per motivazioni molto distanti da quelle che credevo, e non è la prima volta in cui la vita, dopo un adeguato periodo di tempo, decide di accontentarmi dandomi ragione anche nelle mie previsioni più pretenziose, a tratti ingenuamente disfattiste, scegliendo di passare attraverso strade, persone, risvolti, associazioni, scoperte che non avrei di certo toccato e scomodato spontaneamente, tanto è banale la rappresentazione che ho della mia mediocrità e del suo fondamento. Il secondo era che ti avrei dimenticato come ho fatto con ogni persona che, per motivi ogni volta diversi ma solo formalmente distanti, ho dovuto accettare di non poter più avere, ritrovandomi a dover smettere di desiderare. So di avere una memoria che tende spontaneamente a raggiungere una posizione di equilibrio in cui è naturalmente scarna, priva, libera, so che, se non sto attenta e non mi ripeto le storie che voglio ricordare, lei mantiene solo le linee fondamentali di ogni evento, rendendo tutto il resto irrecuperabile, non più esistito, lasciandomi a volte solo il nome di una persona o un'immagine neutra che diventa via via meno aderente alla realtà ogni volta che tento di ridisegnarci intorno tutto quello che mi manca, altre volte ancora solo la coscienza di aver conosciuto e di aver vissuto, come la struttura esterna di un ricordo senza più contenuto. Proprio perché mi conosco e sapevo che sarei stata io a privarmi di te, e non il tempo, non la stanchezza o altre scuse d'ordinanza, mi ero ripromessa di trascrivere più fedelmente e dettagliatamente che potevo quello che ancora ero in grado di ricordare prima che cambiassi ambiente, sfondi, stanze, compagni, orari, abitudini, prima di allontanarmi materialmente da quella collezione di stimoli naturali che era la mia vita lavorativa quotidiana nei confronti di ogni cosa potesse essere catalogata come noi due. Proprio perché mi conosco, poi, non l'ho fatto, perché ho preferito, fra i mali possibili attraverso cui sarei comunque dovuta passare, arrivare a questo punto, in cui non mi manchi perché non sono più capace di sentire che tu sia stato presente in un periodo, vero, realmente accaduto, della mia vita.
Adesso sei un contenitore in cui conservo i racconti di tutte le cose di me che sei riuscito a cambiare, ma sono quasi tutte storie scritte dopo, quando già tu non c'eri più, quindi non credo valgano per assolvermi e perdonarmi questa volta, e allo stesso tempo sei un capitolo semplificato, rivisto, ritagliato fino a lasciarmi solo le linee portanti di una figura che non saprei più descrivere o disegnare, e se quando ho rivisto tutte quelle tue foto mi sono ritrovata a piangere in modo così violento e ridicolo è stato perché in quel momento ho scoperto di nuovo, e quindi poi ho dovuto accettare ancora, che eri davvero stato e che ti avevamo perso in un modo irrimediabile, tremendo, definitivo, oltre ogni stupido discorso sul tempo che passa, sull'insoddisfazione esistenziale e sul male di vivere.
Ci sono molte cose di me che non ti ho detto, e non perché non ne abbia avuto il tempo o l'occasione, ma perché ho preferito non spiegarti e non mostrarti chi ero e di cosa ero e sono capace, per vergogna e per paura che non avrei poi potuto continuare a vivere, come avevo bisogno di fare, in quel modo esatto in cui riuscivo a toglierti la paura, nonostante gli anni che ci dividevano, nonostante la tua bellezza così giovane e pulita contrapposta al mio sentirmi cronicamente inquieta e rovinata, nonostante i nostri ruoli, nonostante il tuo intuito fuori dal comune dal quale a volte ho dovuto inventare un modo per difendermi. Ho voluto lasciare tutto così com'era nato, un legame splendido, intimo, fatto dell'affetto più puro e immotivato, senza ragione o fondamento, senza parole e senza categorie, qualcosa di irripetibile.