mercoledì 29 febbraio 2012

veder passare immagini / senza permettersi il tempo per inseguirne il senso.

Questo tempo è la vita che mi rimane dopo che il resto ha preso la sua parte e non posso accettare di perderlo andando a dormire. È con questi ritagli che devo trovare il modo di occuparmi di me, farmi sfogare, esprimermi, divertirmi, calmarmi, parlare, creare, toccare, inventare, curarmi. Ho solo poche ore al giorno per rielaborare e sciogliere l'angoscia per la morte, per la perdita, più in generale per la docilità con cui ho lasciato che nonostante le premesse anche la mia diventasse una vita comune, ordinaria, con un lavoro invadente, espressioni forzate, scadenze regolari, piani aziendali, bilanci di spesa, stime di produttività, degenerazione, immagini di umiliazione fisica, fallimenti umani e terapeutici, cinismo, compromessi, vessazioni, obbedienza mascherata da consenso, subordinazione e vigliaccheria. Questo tempo sono io e se dormo finisce troppo in fretta, e con lui anche io finisco troppo in fretta. Ed è per questo che sono nervosa, non trovo pace in una posizione, continuo a muovermi, cambiare, toccare i contorni degli oggetti con le dita, per questo non riesco a pensare di dedicarmi ad una sola cosa per volta e cambio umore anche in maniera violenta quando mi accorgo di avere sonno, per questo anche mentre scrivo continuo a guardare, ascoltare, giocare, raccontarmi storie, per questo sento con così tanta urgenza di dover fare in fretta, mettere più cose che posso in queste ore, perché anche questo tempo sta passando e le notti ad un certo punto si concludono, mentre io continuo a dividermi fra l'ansia di creare e un sentimento perverso, pieno di rabbia, per il fatto di non potermi nemmeno concedere una tregua, dormendo.

domenica 26 febbraio 2012

light another candle and release me.

Sono sollevata al pensiero che sia già sera e che domani mattina mio padre riparta. Non mi era ancora successo di desiderare così intensamente che un periodo di tempo, anche se inatteso, ambiguo e a tratti grottesco, durasse poco e scivolasse via in fretta. Io sono sempre stata quella che ha cercato di tenerlo stretto, il tempo, anche quando questo significava moltiplicare le occasioni e le forme attraverso cui un dolore, il mio, si sarebbe potuto manifestare. Questi pochi giorni, invece, li ho letteralmente lasciati andar via come se fossero qualcosa di intercorrente, una piccola penitenza, una parentesi accidentale, come se lo stessi semplicemente ospitando a casa mentre lui è in viaggio verso la sua vera destinazione, una città in cui troverà un'altra figlia che, a differenza mia, lo sta aspettando come si aspetta un sollievo, come una persona che manca. Nel corso del tempo ho provato quasi ogni genere di sentimento nei suoi confronti, da uno smodato senso di colpa al desiderio esasperato di compiacere, dalla voglia di conquistarne l'attenzione e l'amore a quello di vedermi riconosciuta in quanto persona, autonoma, sana e libera, dal terrore per le sue reazioni alla compassione per i suoi tentativi assolutamente maldestri di parlarmi, raggiungermi e recuperarmi come figlia. Ho provato frustrazione, rabbia, disgusto, repulsione, desiderio di ribellione, attaccamento patologico e dipendenza, ho provato vergogna e senso di abbandono, ho portato il peso della responsabilità per la sua infelicità, ma forse non ho sentito mai la sua mancanza e non ho mai desiderato di averlo vicino, o più vicino.
In questi pochi giorni mi sono isolata più che ho potuto, l'ho lasciato materialmente da solo nonostante questa casa sia piccola e raccolta, non mi sono sforzata di intrattenerlo o farlo divertire, non ho iniziato alcun discorso e non ho raccolto le sue frasi che avrebbero voluto farlo, non ho parlato di me e ho sorriso molto poco, non mi sono sforzata di nascondermi dietro una facciata di coerenza e maturità, forse ho anche mortificato le sue speranze perché non l'ho abbracciato, non ho accettato che mi portasse fuori a pranzo e non gli ho concesso di comprarmi un regalo.

sabato 25 febbraio 2012

sooner or later you heal or you die.

Non riesco ad abbandonarmi nemmeno quando dormo, faccio dei sogni che sono allo stesso tempo lucidi e visionari, sogni rapidi che poi si dilatano in maniera inaspettata su un'immagine che è quasi sempre un intreccio di rimpianto e di angoscia, e lì si fermano per un tempo che, in accordo con le regole che valgono di notte, potrebbe essere anche solo qualche secondo ma è come un'eternità, come avere fra le mani tutto il tempo del mondo, sogni costruiti e vissuti con in sottofondo una coscienza così presente, vigile ed invadente da essere più simili a brevi episodi di tortura annunciata piuttosto che a degli esercizi notturni di stile.
Spesso mi sveglio, anche più volte durante una sola notte, accorgendomi che non stavo nemmeno sognando nel senso letterale del termine, ma stavo solo ripassando mentalmente elenchi di nomi o di situazioni, senza la bellezza delle immagini, senza l'esercizio della fantasia, senza tutti gli allestimenti e le costruzioni che mi farebbero essere più sana di quel sono, in quanto ancora capace di nascondere sotto la struttura di una storia quello che sento di dovermi raccontare ogni notte.
A volte si tratta semplicemente di cose che ho il terrore, anche immotivato, di dimenticare, i nomi degli oggetti, i posti in cui li ho lasciati, la loro posizione esatta l'ultima volta in cui li ho usati, la strada per tornare a casa partendo da più punti della città, il numero di case in cui ho vissuto, i modi per uscire anche al buio dalle stanze in cui ho dormito, la forma delle stazioni da cui parto più spesso, le scadenze, comprese quelle che ho già onorato.
Altre volte ancora si tratta di una collezione delle scene più umilianti, momenti di miseria, di semplice delusione, immagini di una perdita, gli errori materiali, quelli lavorativi e quelli affettivi, descrizioni fotografiche di un'incapacità di scegliere, di vivere e di smettere di rinunciare. E anche senza volermi consolare, mi dico che probabilmente svegliarmi è l'unico modo che ho per interrompere queste catene di immagini che altrimenti potrebbero continuare per un tempo intollerabile, diventando una persecuzione, facendomi perdere in una costruzione fatta di rimandi e assonanze che si accendono e si legano in maniera assolutamente incontrollabile, spontanea e rapida, da cui rischierei davvero, se mi abbandonassi anche solo per una notte, di riemergere poi un giorno qualunque senza più vita da vivere.

venerdì 24 febbraio 2012

nothing again. noone is listening.

Qualche notte fa ho sognato di trovare dei binari, interrotti, all'interno di una stanza. Accanto ai binari c'erano dei pezzi di rotaia accatastati uno sull'altro e dello spago. D'istinto ho provato a completare i binari aggiungendo alcuni di quei pezzi, ma nessuno combaciava, nemmeno grossolanamente, né c'era o si intuiva il modo in cui potessero legarsi fra loro.
Sapevo di avere a disposizione solo due modi per continuare a costruire quel binario, entrambi destinati a fallire dato che mi trovavo dentro un sogno in cui erano ancora vivi il senso della verosimiglianza e la ragionevolezza: lo spago non avrebbe dato alcuna garanzia di tenuta, in particolare visto che quei pezzi si articolavano così male fra di loro, e io non avevo i mezzi per trasportare tutta la struttura fuori dalla stanza per cercare qualcuno che potesse saldarli.
I pezzi erano leggeri, come se non fossero fatti di metallo, e mentre li spostavo, rigirandoli e provando a farli intrecciare in qualche modo, guardavo verso la porta d'ingresso della stanza usandoli proprio come pezzi di un gioco, come un filtro o una cornice, prima solo per caso, poi sempre più spesso, quasi con affanno, con un gesto che si modificava da un momento al successivo, riempiendosi di ansia e di un'anticipazione senza clemenza.
Sentivo che stavo fallendo ancora, questa volta in un compito che avevo scelto per caso, forse solo perché non riuscivo a sopportare il disordine di un'opera non compiuta e la vista dei pezzi, in attesa, sul pavimento.
E sentivo che allo stesso tempo non potevo più cambiare idea, tirarmi indietro, far finta anche solo di non averci provato, perché ero diventata quegli stessi pezzi: muovendoli mi accorgevo che si trattava ormai della naturale continuazione delle mie mani che per questo erano diventate brutte, troppo lunghe, imprecise, maldestre, inutili.
E mentre continuavo a guardare in direzione della porta, sapevo perfettamente che non si sarebbe affacciato nessuno ma avevo già dentro ugualmente il dolore, acuto come una minaccia, del momento in cui scopri che qualcuno è lì ad assistere al tuo fallimento mentre prende forma.

martedì 14 febbraio 2012

watch me dance, I'm a puppet. you can almost see the strings.

Per difendermi da ogni forma di delusione e tradimento, che non credevo e non credo ancora di essere in grado di sopportare e superare, quindi in generale per mettermi al riparo e conservarmi, ho imparato a mortificarmi quotidianamente fino al punto in cui ho disimparato a sperare; il mio cinismo e la mia incapacità di credere nascono proprio da questo lavoro rituale e rigoroso di mortificazione e umiliazione che ho scelto per sostituire quegli insegnamenti di vita, di convivenza sociale, più in generale di relazione, che non ho ricevuto per dimenticanza, per scarsa attenzione, per un'educazione fantasiosa e improvvisata, per l'assenza di un fratello o una sorella, per l'indole solitaria che ho ereditato dal ramo sbagliato, malato, della mia famiglia.
Ho iniziato già da piccola a costruirmi un repertorio di comportamenti che mi aiutavano a farmi male, ridimensionandomi, dandomi una lezione, svilendomi, ricordandomi e ripetendomi quanto poco contassi e quanto poco valore avessi, disegnando un senso esatto per la mia miseria. Comportamenti che mi facevano allo stesso tempo guadagnare autonomia e lucidità, anche se al prezzo di una consapevolezza dolorosa, di un disincanto prematuro e inadeguato alla mia età, di una perdita di vivacità ed entusiasmo, con una graduale e crescente incapacità a relazionarmi e con una perdita di valore, interiore, trasversale e assolutamente convincente.
Fin da piccola mi piaceva e mi serviva chiamare quando sapevo che non avrei potuto ricevere una risposta, perché nessuno era in casa ad esempio, aspettando fino all'esasperazione che qualcosa interrompesse il suono ripetitivo del telefono, sempre a vuoto; mi piaceva e mi serviva anche aspettare seduta vicino alla porta quando sapevo che per ore non sarebbe tornato nessuno.
Quando ero già più grande, forse uno degli ultimi anni di università, ho studiato per mesi, ogni sera, su una poltrona vicino all'ingresso, sperando che uno dei miei due genitori non tornasse a casa mettendo fine alla nostra famiglia, e l'ho fatto conoscendo a memoria gli orari di lavoro e le abitudini di ognuno, potendo prevedere con esattezza il momento in cui sarebbe arrivata la mia delusione.
Cambiando i dettagli devo aver generato decine di situazioni, tutte ugualmente frustranti, perché quello che contava era riuscire a ritagliarmi un angolo in cui poter rimanere con il mio desiderio in mano, ad aspettare di vederlo rovinato dal tempo, dagli eventi, anche solo dal silenzio o da un'assenza annunciata.

mercoledì 1 febbraio 2012

what do you get when you cross an insomniac, an unwilling agnostic and a dyslexic.

Il tempo non mi ha guarito e ora sono semplicemente una persona matura e nevrotica.
Nel corso degli anni ho tentato di dare la colpa del fatto di essermi scoperta ormai rovinata e inadatta a vivere a chiunque si fosse avvicinato a me quel tanto che bastava per avermi toccato o lasciato qualcosa di suo, ma ho mentito tutte le volte in cui ho detto che credo alle storie che mi racconto. Sembra quasi offensivo pensare che tutta la lucidità di cui sono capace - nel guardarmi, descrivermi, suddividermi in capitoli, rielaborarmi e darmi una nuova forma con le parole - possa essersi arresa di fronte ad un gioco di ruolo discreto ed essenziale, quasi primitivo, in cui io mi metto in castigo e poi non mi ribello. Sono nata incapace di vivere al di fuori di una stanza perché la mia capacità di immaginare si è arresa di fronte al compito di gestire l'angoscia per tutta la rete di possibilità non prevedibili, per i dialoghi, per le parole da dover decidere mentre il mondo accade e per la diversità, che è solo un altro nome per la moltitudine che così fa solo più paura. Sono stata io a chiedermi di restare in quella stanza, dopo aver misurato i contorni del dolore nato dall'inadeguatezza verso la compagnia, dalla profonda tensione interiore che trova uno sfogo solo nella solitudine, scelta e fortemente voluta, e dalla condanna a percepire la miseria in maniera puntuale e matematica in ogni circostanza. Sono stata io a rovinarmi creando una struttura di alibi in cui ciascuno ha potuto poi incastrare le proprie rimostranze quasi senza sforzo, sono stata io a far crescere l'orgoglio per un'autonomia assolutamente solitaria e silenziosa, dichiaratamente fallimentare, che mi ha fatto diventare solo più presuntuosa ed aggressiva, perché gelosa di un traguardo fittizio e allo stesso tempo terrorizzata all'idea che qualcuno potesse violarlo. Sono stata io a disegnare porte, chiavi e catene, per poi sedermi con le spalle contro il muro ad aspettare, continuando in silenzio a recriminare, ad agitarmi, arrabbiarmi, a vivere nell'angoscia di essere senza via d'uscita.