domenica 4 dicembre 2011

[...] non ho mai desiderato diventare una professione.

Lavoro in una stanza senza finestre, con due porte sui lati opposti, che danno sul corridoio che circonda dall'interno il reparto, che ha la forma di un lungo anello. Tutto il contorno è composto dalle stanze per i pazienti, quasi tutte doppie, verdi, con due finestre sulla parete più esterna. Poi c'è, appunto, il corridoio, pieno di gente che cammina velocemente, guardando sempre verso l'interno, ossia verso le stanze dei medici, la vetrata degli infermieri, la cucina, le due sale per la preparazione dei farmaci. Nel corridoio ci sono i familiari dei pazienti più giovani, di quelli che ancora si devono adattare e che sono, quindi, più spaventati, spesso perché sono appena arrivati, o di quelli più critici. Molte volte ci sono anche i pazienti che stanno meglio, le prime linee di terapia, giovani ragazzi o giovanissimi adolescenti o giovanissime coppie che si inventano una vita e cercano di conquistarsi uno spazio, anche sociale, all'interno di un microcosmo che non si può spiegare a parole. Non ho mai chiesto agli altri miei colleghi perché anche loro camminino in fretta, ma so perché lo faccio io ed è perché non voglio vederli mentre mi guardano, seduti sui loro letti, perfettamente intenti a non fare niente dopo aver già provato a fare tutto quello che si può fare in questa circostanza per riempire il tempo che avanza e che disorienta, dopo aver letto, guardato, camminato, scherzato, parlato e non detto. E non si tratta di non voler vedere la miseria nella loro solitudine, nella consapevolezza di una vita andata in frantumi, non si tratta di cercare di evitare di essere toccati da qualcosa che, invece, ti attraversa inevitabilmente ogni giorno, più volte, senza un rimedio o la possibilità di un riparo. Si tratta del peso di non essere mai soli, di non potersi liberare mai dalle costrizioni, dalle attese, dalle impressioni e dalla soggezione, da tutto il tessuto sociale ed affettivo che porta con sé la presenza anche di una sola persona che ti guarda e che cerca di capire dal modo in cui la guardi e dal modo in cui ti muovi se tieni davvero a lei o se fai solo il tuo lavoro, se le hai detto la verità quando le hai spiegato le sue possibilità, se le sorridi per affetto o per distribuire speranza, se fai parte di un gioco o di un piano o se anche tu stai cercando un modo per attraversare tutto questo senza subire un danno irreparabile.